Nell’estate del 1969 venivano aperti, nel Lazio, i primi tratti di una nuova autostrada: la A24. Circa mezzo secolo dopo Daniel Katz, percorrendola, decise di fondare una propria casa di distribuzione cinematografica. Con l’aiuto di David Fekel e John Hodges, come lui precedentemente impiegati nel settore della produzione, nacque nel 2012 la A24 Films (poi A24).
L’ascesa fu piuttosto rapida e ben presto vennero stipulate importanti collaborazioni con DirecTV Cinema e Amazon Prime Video. Ciò si spiega in un fatto molto semplice: Katz e compagni erano riusciti a colmare il vuoto creativo nell’America dei blockbuster usa e getta offrendo al pubblico opere più ragionate, variegate, fuori dai canoni di genere e formali (si pensi all’aspect ratio in 4:3, scelta intraprendente nel panorama contemporaneo). Questa maggiore libertà sta quindi alla base del successo della A24 ed è diventata la sua cifra distintiva, sia nelle intenzioni che nell’estetica, al punto da favorire la nascita di una vera e propria fanbase, fatto insolito per una casa cinematografica che le ha permesso di aumentare progressivamente il suo peso nell’industria.
Oggi la A24 si dedica anche alla produzione e conta oltre 100 film e alcune serie tv, numeri molto alti che potrebbero intimorire chi vuole approcciare le sue tanto chiacchierate pellicole. Niente paura: questa guida, divisa in quattro blocchi cronologici, ha lo scopo di aiutarvi a farlo. Buona lettura.
I primi anni: 2012-15
Il periodo iniziale della A24 è stato un grande banco di prova per i suoi fondatori: distribuire film indipendenti è un investimento rischioso, ma l’unione di lungimiranza e qualità delle opere proposte si è alla fine rivelata vincente.
La prima pellicola che ha raggiunto le sale è stata A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III, diretta da Roman Coppola. Nel corso dell’anno successivo anche The Bling Ring della sorella Sofia avrebbe avuto lo stesso percorso, accompagnata da Ginger & Rosa di Sally Potter, Spring Breakers di Harmony Korine e The Spectacular Now di James Ponsoldt. Il primo grande passo per la casa è stato però Enemy di Denis Villeneuve, che ha inaugurato l’accordo da 40 milioni di dollari con DirecTV Cinema.
Grazie anche alla cooperazione con Bank of America e J.P. Morgan, i film della A24 hanno poi riscontrato un aumento degli incassi (erano gli anni del debutto solista alla regia di Alex Garland, di Yorgos Lanthimos e del primo Robert Eggers) e hanno consentito all’azienda di uscire dall’anonimato.
Esploriamo allora questa fase decisiva, in cui si intravedono chiaramente molte di quelle caratteristiche che sarebbero poi divenute canoniche nei lavori targati A24.
La wave fantascientifica dei primordi: Under the Skin ed Ex Machina
I primi anni della A24 sono stati segnati da due film fantascientifici che si sono rivelati essenziali per gli sviluppi soprattutto formali dei prodotti successivi. Il primo è Under the Skin, ultimo lungometraggio finora uscito di Jonathan Glazer che mostra il genere umano dalla prospettiva di un alieno (interpretato da Scarlett Johansson) che si muove per le strade di Glasgow. Risultato da oltre dieci anni di lavoro, il film si serve di attori non professionisti e telecamere nascoste per essere il più naturale possibile e, nonostante il flop al botteghino, si è guadagnato un solido seguito.
La colonna sonora, composta da Mica Levi, ha ottenuto numerosi riconoscimenti ed è stata nominata dalla rivista musicale Pitchfork la seconda migliore di tutti i tempi. Ad accompagnarla, inquadrature di rara bellezza che rendono Under the Skin uno dei precursori di quell’approccio ricercato all’immagine che ha reso le opere della A24 tanto popolari.
Il secondo è Ex Machina di Alex Garland, qui al suo esordio da regista. Nonostante Garland sia uno scrittore navigato nella fantascienza, avendo firmato la sceneggiatura di film come 28 Days Later e Dredd, il film è degno di nota più per l’aspetto estetico visivo che per i temi trattati. La trama infatti aggiunge poco di nuovo al genere dedicato ai robot e agli androidi, con il loro libero arbitrio e la loro coscienza, elementi già visti e rivisti in decine di altri racconti, mentre invece il punto di forza di Ex Machina sta nell’atmosfera asettica e pulita del film.
Dal design innovativo di Ava (Alicia Vikander) alla casa/laboratorio ultra tecnologica dello scienziato Nathan Bateman (Oscar Isaac), il film si fa ricordare più per la potenza estetica che per l’innovazione narrativa, che è quasi del tutto assente. Al di là della mancanza di originalità comunque il film è eseguito alla perfezione, la tensione è palpabile e rimane fino all’ultimo minuto un dubbio su come finirà. Consigliato ai fan più accaniti della fantascienza, o a chi piace davvero molto l’interior design.
Enemy, il primo successo di Denis Villeneuve
Enemy è il primo film statunitense diretto da Denis Villeneuve, allora uno sconosciuto, mentre oggi è uno dei registi più conosciuti ed acclamati degli ultimi anni, dopo aver diretto dei blockbuster come Blade Runner 2049 e Dune. È sempre interessante vedere i primi film di un regista affermato, ed Enemy rispecchia la vena cervellotica dei primi film del regista canadese, come Maelström.
Il film infatti sembra essere il figlio illegittimo di David Cronenberg e Christopher Nolan, rubando dal primo le ambientazioni urbane e le architetture oppressive ed inquietanti di Toronto, e dal secondo una trama enigmatica e psicologica, che lascia molto spazio alle interpretazioni dello spettatore. Ma in realtà in Enemy si ritrova molto della poetica di Villeneuve: l’uso controllato e dettagliato della fotografia, a cui si rifarà molto in Sicario, oppure il montaggio ripetitivo e onirico, che ricorda molto quello adoperato in Arrival, e ancora l’atmosfera inquietante e pesante che tornerà poco dopo in Prisoners, girato subito dopo aver finito le riprese di Enemy.
Per i fan di Denis Villeneuve, e soprattutto per gli appassionati dei thriller psicologici e dei puzzle enigmatici più insolvibili, Enemy rappresenta uno dei film più interessanti della filmografia del regista, che qui è coadiuvato dal talento di attori e attrici come Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent e Sarah Gadon, oltre a un piccolo cameo di Isabella Rossellini.
Il nuovo canone dell’horror indipendente: The VVitch
Acclamato esordio alla regia dell’altrettanto acclamato Robert Eggers, The Witch (o The VVitch) rappresenta uno dei film più importanti per la A24, poiché è ormai diventato il modello di quasi ogni film horror indipendente statunitense uscito negli ultimi anni. The Witch è caratterizzato da un ritmo molto lento e una assenza totale di jumpscare, giocandosi tutto l’elemento horror nell’atmosfera: le riprese dei boschi, i rumori ambigui della natura, i movimenti di macchina insoliti e lenti, il comportamento imprevedibile degli animali.
L’horror di The Witch non è assolutamente quello a cui ci ha abituato la Blumhouse, anzi è la perfetta risposta antitetica a film come The Conjuring e Insidious. L’eredità di The Witch invece si è ripercossa in film come Gretel and Hansel, The Ritual, The Empty Man, per non citare i film di Ari Aster Hereditary e Midsommar, o ancora Saint Maud di Rose Glass, questi ultimi sempre di casa A24.
La formula di The Witch funziona, è il classico esempio del film giusto al momento giusto: in un periodo in cui la scena horror al cinema era carente e poco originale, adesso grazie al film di Eggers si è assistito a una rinascita, anzi ad un Rinascimento dell’horror, che ci ha regalato dei film che non pensano solo a spaventare, ma anche a far sviluppare delle interpretazioni e delle discussioni una volta che terminano i titoli di coda, lasciando per questo un senso di inquietudine molto più profondo e duraturo rispetto ai film horror più commerciali.
The Lobster, o Real Life Tinder
Diretta da Yorgos Lanthimos, The Lobster è una commedia nera distopica ambientata in un futuro in cui essere single è proibito. Lasciato da sua moglie per un altro uomo, il protagonista (interpretato dall’ottimo Colin Farrell) viene spedito in un hotel all’interno del quale ha 45 giorni a disposizione per trovare una partner, pena la trasformazione in un animale a sua scelta. Nel cast anche Olivia Colman nel ruolo della direttrice, Rachel Weisz e Léa Seydoux.
The Lobster gioca con l’esposizione attraverso una voce narrante eccessivamente e inutilmente esplicativa, che non fornisce allo spettatore vere informazioni o lo fa in ritardo rispetto agli avvenimenti sullo schermo. La regia studiata e precisissima – impronta di molti film della A24, basti pensare al pittoresco Slow West che usciva proprio in quel periodo – incapsula momenti di profondo imbarazzo dovuti alle difficoltà comunicative dei personaggi, in un crescendo grottesco che suscita ilarità più che inquietudine (cosa che invece avverrà in altre pellicole del regista greco, come Il Sacrificio del Cervo Sacro).
La vena satirica e disturbante di The Lobster è valsa a Lanthimos il Premio della Giuria a Cannes e una nomination per la miglior sceneggiatura originale agli Oscar.
Vedere il dramma con gli occhi di un bambino: Room
Alle ambite statuette ci è arrivato anche Room con ben quattro candidature (tra cui miglior film) e una vittoria per Brie Larson, qui nel ruolo di una madre tenuta prigioniera da un uomo con suo figlio Jack (il bravissimo Jacob Tremblay).
Ciò che rende Room peculiare è che, come il romanzo da cui è tratto (a sua volta ispirato al caso Fritzl, in cui un padre segregò la figlia in un bunker sotterraneo per poi stuprarla ripetutamente), le vicende vengono viste attraverso gli occhi del piccolo protagonista. La stanza in cui vive da sempre è il suo intero mondo, mentre ciò che vede in tv è finzione: questa è la storia che la madre gli ha raccontato per rendergli la vita più sopportabile. Ma ora Jack ha cinque anni, ed è pronto per la verità e aiutarla a fuggire.
Room indaga non solo le ripercussioni fisiche, ma anche quelle psicologiche di una simile situazione, e lo fa con una delicatezza e una sensibilità che non appare superficiale né inutilmente melensa: ogni elemento è perfettamente dosato, e questo rende l’esperienza di visione estremamente emozionante.
The best of the worst: Spring Breakers e Tusk
Usciti a distanza di due anni l’uno dall’altro, Spring Breakers e Tusk sono stati definiti tra i peggiori film della casa di produzione, ciascuno per diversi motivi. Se il primo è stato pesantemente criticato per l’alta dose di sessismo e di sessualizzazione, l’altro è invece stato deriso per la sua incapacità di far ridere e/o di far spaventare il pubblico. Solo Spring Breakers però ha goduto di una graduale rivalutazione, che ha portato oggi, a 10 anni di distanza dalla sua uscita, a diverse interpretazioni ed analisi sul film.
Diretto da Harmony Korine, Spring Breakers è sicuramente uno di quei film che meglio incarnano l’estetica e la cultura pop di una generazione, se non di un’intera decade, in questo caso degli anni ’10 del 2000, e forse per questo non poteva essere pienamente apprezzato alla sua uscita, richiedendo invece uno sguardo retrospettivo sul decennio appena passato. Korine infatti voleva realizzare un film “sensoriale” che riuscisse a trasmettere sensazioni più che un senso di azione, e non si è concentrato sulla trama, che infatti è venuta molto dopo l’idea iniziale.
Il risultato può essere riuscito o meno, ma gli elementi che più catturano l’attenzione in tutto il film sono sicuramente l’estetica dai colori acidi e al neon, il ritmo non-lineare e velocissimo, e la presenza costante, invadente, quasi assordante della musica. Tutto il film sembra un lunghissimo video musicale sperimentale, poiché usa lo stesso stile e la stessa estetica di un videoclip di un qualsiasi brano pop degli ultimi 10 e passa anni.
In questo Spring Breakers è notevole, poiché raramente si riesce a trovare un film che canalizzi e distilli in un’ora e mezza la corrente estetica e visiva di un intero decennio. Non si può elogiare allo stesso modo Tusk di Kevin Smith, poiché è effettivamente un prodotto riuscito solo a metà. La direzione del film, che vorrebbe essere una commistione di horror e commedia, sembra costantemente indecisa su quale genere abbracciare pienamente, risultando in un prodotto finale estenuante: Tusk non riesce né a spaventare né a far ridere, nonostante sia evidente la vena di satira che pervade tutto il film.
Tusk avrebbe dovuto iniziare una trilogia horror/comedy tematica intitolata True North trilogy, la cui idea sarebbe di vedere gli stessi attori ricorrenti nei diversi film, certe volte riprendendo gli stessi ruoli, altre volte cambiandoli. Ad oggi tuttavia è uscito solo un seguito di Tusk, Yoga Hosers, stavolta distribuito dalla Invincible Pictures invece che dalla A24. Anche Yoga Hosers è stato un flop notevole, più di quanto non lo sia stato Tusk, il che ha reso la realizzazione del terzo capitolo, idealmente intitolato Moose Jaws, molto incerta.
Non solo fiction: Amy
La A24 non si è dedicata solo alla produzione e alla distribuzione di film di finzione, ma anche di documentari. Un esempio è costituito da Amy di Asif Kapadia, che attraverso testimonianze video pubbliche e private racconta la travagliata storia della cantautrice inglese Amy Winehouse, scomparsa nel luglio del 2011 a seguito di un’overdose.
Amy ha le fattezze di un found footage horror sul culto delle celebrità – un’idolatria invadente e ossessiva che ha in larga parte contribuito a distruggere la vita di una donna che voleva dedicarsi esclusivamente alla musica. La voglia di scomparire si concretizzava nell’abuso di alcol e sostanze stupefacenti, al punto da condurla alla morte. Protagonisti assoluti del film sono i suoi brani, accompagnati (forse in maniera un po’ dissonante col tono generale) dai rispettivi testi per poter essere cantati.
Tra i documentari della A24 ricordiamo anche De Palma, Boys State e Supersonic.
I grandi successi: 2016-18
Solo nella prima settimana d’uscita, Amy è diventato il documentario britannico di maggior successo di sempre al botteghino e si è guadagnato un Oscar nella sua categoria alla cerimonia del 2016, quella di Brie Larson, in cui ha vinto anche Ex Machina per gli effetti visivi.
L’anno successivo sarebbe andata persino meglio con Moonlight: il film può essere considerato uno spartiacque tra la prima e la seconda “era” della A24, costituita da pellicole (per la prima volta non solo distribuite ma anche prodotte) acclamate all’unanimità dal pubblico e dalla critica che hanno portato la casa definitivamente alla ribalta. Iniziavano anche le collaborazioni con diversi registi che sarebbero poi tornati a lavorare per la A24, come Ari Aster, i fratelli Safdie, Sean Baker e David Lowery.
Nel 2017, l’azienda ha distribuito il suo primo film non in lingua inglese negli Stati Uniti e in Cina, Menashe. Nel 2018, invece, ha lanciato il suo podcast ufficiale, al quale hanno partecipato tra gli altri Bo Burnham e Martin Scorsese. Sempre nel 2018, la A24 ha iniziato una partnership con Apple finalizzata alla produzione di alcuni film per quest’ultima.
Tuffiamoci quindi in questo periodo d’oro, partendo proprio da Moonlight.
Il trionfo definitivo: Moonlight
Ci sono due ragioni principali per le quali Moonlight è un film decisivo per la A24: è stato il primo a essere prodotto dall’azienda e anche il primo a vincere come Miglior Film agli Oscar nel 2017, in un momento passato alla storia per l’errore della proclamazione di La La Land – che, come il pugno di Will Smith di quest’anno, ha oscurato un importantissimo traguardo nel mondo del cinema.
Sì, perché Moonlight è stato anche il primo film LGBT e con un cast composto da soli attori neri a ottenere l’ambita statuetta nella categoria più importante. Frutto della sintesi tra la sceneggiatura originale semi-autobiografica scritta per il teatro da Tarell Alvin McCraney e le esperienze personali del regista Barry Jenkins, la pellicola mostra tre fasi della vita di Chiron (interpretato da Alex R. Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes), abitante della Liberty City dell’epidemia del crack, un contesto povero e ostile in cui deve fare i conti con la mascolinità performativa e la sua omosessualità.
Caratterizzato da una palette che si muove principalmente tra le gradazioni di blu e viola e da una fotografia notevole, Moonlight è un viaggio realistico e silenzioso in un mondo che non perdona la diversità e un interessante studio sull’influenza dell’ambiente sul singolo.
Good Time, il cocktail ansiogeno dei Safdie
Per la A24 lavorano anche i fratelli più stressanti del cinema contemporaneo (no, non stiamo parlando dei D’Innocenzo): i Safdie. Dopo una sfilza di corti e mediometraggi e cinque lunghi, due documentari e tre narrativi, la coppia è esplosa con Good Time, uscito nel 2017 e con protagonista Robert Pattinson – che si riscattava intanto della fama causata da Twilight.
Il film è un train wreck dal quale non si può staccare lo sguardo, un folle domino musicato dalle tracce martellanti e sperimentali di Oneohtrix Point Never, e pone sotto i riflettori un personaggio disprezzabile, Connie, che non si fa nessuno scrupolo nel commettere atti deplorevoli per riuscire a svignarsela. Sullo sfondo c’è Nick (Benny Safdie), suo fratello minore con disabilità intellettiva, persuaso dall’uomo a prendere parte a una rapina in banca e catturato dalla polizia durante la fuga. L’obiettivo del protagonista è quindi quello di liberarlo e riportarlo a casa.
La bravura dei Safdie sta soprattutto nell’intrecciare molteplici dinamiche in contemporanea, creando così un crescendo ansiogeno che può culminare nel conflitto o nella tragedia; il tutto è collocato in un’atmosfera allucinata e dai colori spaventosamente saturi.
First Reformed, la redenzione di Paul Schrader
First Reformed segna il ritorno in auge di Paul Schrader, lo sceneggiatore di Taxi Driver che dopo ben 20 anni di flop e di film brutalmente derisi, riesce finalmente a rientrare nelle grazie della critica con un film ordinato ed elegante, trattando temi delicati ed estremamente attuali: crisi climatica, disagio sociale, terrorismo, suicidio, e ovviamente i soliti riferimenti religiosi a cui Schrader è particolarmente legato in ogni suo film (si pensi alle sceneggiature di Bringing Out the Dead e The Last Temptation of Christ, entrambi diretti dall’amico Martin Scorsese).
Il film è intriso di profondi temi religiosi, primo fra tutti il dubbio nella fede personale del pastore Toller, il protagonista interpretato da Ethan Hawke. Ma First Reformed è stato universalmente acclamato anche perché finalmente Schrader ha avuto l’occasione di omaggiare appieno i suoi miti Robert Bresson e Carl Dreyer, maestri del cinema trascendentale su cui scrisse in gioventù un lungo saggio, intitolato Transcendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer. Infatti First Reformed lascia molte domande, le cui risposte sono spunti di riflessione e di discussione lasciati in mano alle libere interpretazioni dello spettatore.
Insomma, se la A24 è famosa per rilanciare la carriera di certi attori, si può dire lo stesso anche sui registi, visto il caso di Paul Schrader, che dopo il successo di First Reformed ha ricevuto una simile accoglienza con The Card Counter, proiettato alla scorsa Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Il senso dell’esistenza: A Ghost Story
Cosa succede se, dopo essere morti, si diventa dei fantasmi? David Lowery indaga questa possibilità in A Ghost Story, in cui un musicista (Casey Affleck) e sua moglie (Rooney Mara) vivono tranquilli nel loro piccolo appartamento a Dallas, fino a che lui non perde la vita in un incidente d’auto. Coperto da un lenzuolo, l’uomo assiste inerme allo struggente lutto dell’amata.
A Ghost Story è un criptico viaggio nel tempo tra la vita e la morte ed è accompagnato dalla meravigliosa colonna sonora di Daniel Hart e della sua band, i Dark Rooms, che arriva dritta al cuore soprattutto con brani come I Get Overwhelmed e Thesaurus Tuus. Il film lascia spazio alle più svariate interpretazioni, sebbene a un certo punto vi sia un monologo recitato da un personaggio anonimo sull’insensatezza e finitezza dell’esistenza che per molti è considerabile la sua chiave di lettura. Secondo altri, invece, è proprio il punto di vista contro cui si schiera Lowery.
A Ghost Story è probabilmente il film più emozionante della A24; un prezioso gioiello che lascia inermi di fronte lo schermo durante i titoli di coda, col magone e gli occhi colmi di lacrime, piccoli di fronte all’eternità.
Lady Bird, o l’imprevedibile virtù della crescita
Tra i pochi film di genere della A24 troviamo i coming of age: American Honey, The Spectacular Now, Eighth Grade, mid90s sono solo alcune delle pellicole che hanno trattato in maniera più o meno riuscita l’adolescenza. Uno degli esempi più interessanti a questo proposito è Lady Bird, scritto e diretto da Greta Gerwig.
Il film è ambientato all’indomani del 9/11 e segue le vicende di Christine (Saoirse Ronan), studentessa all’ultimo anno di liceo in un’America dominata dal terrore. L’incessante parlare di guerra nei media e la difficile situazione economica familiare schiacciano la ragazza, che vorrebbe vivere appieno l’età giovanile senza rinunciare ai sogni e alla normalità.
Il ribelle percorso di crescita di Christine non avviene senza contraddizioni: il difficile rapporto con sua madre (che ricorda un po’ quello che si vede in Ho ucciso mia madre di Xavier Dolan), ad esempio, è una costante nel film. Ma Lady Bird non è interessato alla risoluzione di questi conflitti; anzi, li accetta nella loro complessità e riconosce che, talvolta, la loro esistenza è intaccabile e forse anche necessaria.
Lady Bird è leggero e scorrevole ed è guidato dalla regia senza sbavature di Greta Gerwig, che dà a una storia come tante un taglio riconoscibile e fresco. In ultimo, Ronan eleva il materiale di partenza con la sua interpretazione, che ha di certo contribuito a rendere la pellicola tanto interessante e amata.
Tra nostalgia e l’età adulta: The Florida Project
Uscito nel 2017, The Florida Project (in Italia Un Sogno Chiamato Florida) marca la prima collaborazione tra Sean Baker e la A24, continuata quest’anno con l’uscita di Red Rocket. Baker si è fatto conoscere negli anni grazie al suo personalissimo stile provocatorio e artigianale, girando film sul suo iPhone e con attori non professionisti. Dopo il successo di Tangerine, Baker gira The Florida Project e per la prima volta lavora con un attore professionista come Willem Dafoe, un altro volto prediletto dalla A24.
Anche se è il meno provocatorio della filmografia di Baker, The Florida Project è comunque facilmente riconducibile alla mano del regista, che grazie ai dialoghi sarcastici e alle ambientazioni pseudo-fiabesche tipiche del suo stile, fotografa la vita vista dal punto di vista di una bambina. La sensibilità caustica di Baker infatti ben si sposa con gli scherzi e le mattacchionate di Moonee e dei suoi vivaci amici, che vivono alla giornata e trovano nelle cose più mondane un’opportunità per evadere dalla deprimente realtà. Lo sfondo del mondo adulto è egualmente ben rappresentato, pur filtrato dal punto di vista dei bambini.
The Florida Project riesce a trovare il giusto equilibrio tra i due mondi dell’età adulta e dell’infanzia, tra dramma e nostalgia, ambientando la sua storia nel colorato e spensierato motel del Magic Kingdom, collocato proprio dietro a Disney World, dentro il quale Baker è riuscito a girare di nascosto l’ultima indimenticabile scena del film sul suo iPhone.
L’instant cult della A24: Under the Silver Lake
Diventato un vero e proprio cult a poco più di 3 anni dalla sua uscita, Under the Silver Lake è un’assurda commedia nera cospirazionista e allucinogena sulla cultura pop, la musica e i fumetti. Tutto chiaro, no? Tutto inizia quando Sarah (Riley Keough), la vicina di casa di Sam (Andrew Garfield) scompare da un giorno all’altro, portando il fattone ad improvvisarsi investigatore e a cercarla. Mano a mano che trova indizi e collegamenti, viene sempre più risucchiato in una cospirazione che lo porterà a rivalutare la realtà in cui vive (la realtà in questo caso è il mondo che si è costruito attorno, fatto di riferimenti alla cultura pop generale).
Terzo film di David Robert Mitchell, che aveva già diretto l’acclamatissimo horror cult It Follows nel 2014, Under the Silver Lake ha tutti gli elementi del cult, ricordando la trama di classici come The Big Lebowski dei fratelli Coen e Inherent Vice di Paul Thomas Anderson, rievocandone le atmosfere surreali e quasi oniriche, deliranti nell’assurda complessità del caso e nei bizzarri personaggi che ne fanno parte, che procurano al protagonista collegamenti astrusi e demenziali, che però, in qualche modo, si ricollegano tutti miracolosamente, risolvendosi quasi da soli senza l’intervento del detective slacker.
Se si è fan di questo genere di film, Under the Silver Lake rappresenta forse la quintessenza del genere, forte di un Andrew Garfield in forma smagliante, in un ruolo in cui molti hanno visto il Peter Parker perfetto, quello che l’attore aveva portato sul grande schermo nei film di The Amazing Spider-Man. Il film infatti porta diversi omaggi al mondo fumettistico e ai fumetti di Spider-Man stesso, causando una reazione a catena di teorie e collegamenti da parte dei fan. Anche se sono passati solo pochi anni dalla sua uscita, Under the Silver Lake continua a regalare nuove interpretazioni e nuovi dettagli a ogni visione.
Swiss Army Man, una piccola gemma demenziale
Swiss Army Man fa parte di quella che si può chiamare la “weird wave” della A24, a cui si potrebbero forse aggiungere Life After Beth e Under the Silver Lake. Il film è diretto dallo stesso duo di Everything Everywhere All at Once, che attualmente sta ricevendo un successo strepitoso negli Stati Uniti (non è ancora nota l’uscita in Italia). Tra i tanti meriti della A24 rientra sicuramente quello di riuscire ad attuare con successo dei restyling di molti giovani attori, intrappolati in typecast e in ruoli che li hanno resi famosi.
Il caso più eclatante è quello di Robert Pattinson, che si è gradualmente staccato dal famigerato ruolo del vampiro apatico di Twilight grazie a film come Good Time, High Life e The Lighthouse, tutti prodotti dalla A24, e che gli hanno permesso di vincere il ruolo di Batman nell’ultimo film. Un’operazione simile è stata attuata con Daniel Radcliffe in Swiss Army Man, in cui l’ex-Harry Potter viene completamente annullato, incarnato qui in un letterale cadavere multiuso, a completa disposizione del povero naufrago Paul Dano.
Il film è volutamente insolito e bizzarro, forse fin troppo per certi gusti, infatti Swiss Army Man fa leva sugli aspetti più grotteschi e demenziali della sua premessa, risultando in un film davvero fuori dagli schemi, difficilmente classificabile in un genere ben preciso, che oscilla tra la commedia e la patetica tragedia umana. Swiss Army Man rimane uno dei film più interessanti della filmografia A24, nonché una piccola gemma, dedicata ai palati più non convenzionali.
Quando l’horror non si vede: Hereditary
Peggio di un horror ricco di immagini spaventose ce n’è solo uno più allusivo e strisciante. Hereditary di Ari Aster ricade in quella categoria del genere che potremmo definire d’atmosfera: nella filmografia del regista l’orrore non sta nel visibile ma in ciò che avviene dietro le quinte o sullo sfondo. Qui nello specifico le rivelazioni del terzo atto ricontestualizzano completamente la narrazione e offrono una nuova, spaventosa prospettiva. In pratica, più si pensa a Hereditary a posteriori, più è terrorizzante.
Star indiscussa del film è Toni Collette (criminalmente snobbata dall’Academy, allergica agli horror) nel ruolo della madre di famiglia severa e con non poche turbe interiori, seguita dal bravissimo Alex Wolff, che interpreta uno dei suoi figli. Con un’impostazione quasi espressionista, i due attori si muovono con gli altri personaggi come delle pedine in una tragedia greca ricca di easter egg, dalla regia chirurgica e le immagini visionarie.
L’estrema misura di Hereditary, della cui trama vi consigliamo di sapere il meno possibile prima della visione, si ribalta nell’ultima parte: la bomba a orologeria esplode e innesca una catena incontrollabile di eventi che porta a un finale sbalorditivo, ma comunque calzante.
Droga, sangria e musica elettronica: Climax
Restando in territorio horror – ma con un approccio differente, più grafico – abbiamo Climax del maestro della New French Extremity, Gaspar Noé. Un nome, una garanzia: anche questo suo film è un’esperienza crudele, sfidante e difficile da descrivere, e cattura sin dall’apertura con l’ipnotica e iconica sequenza di danza sulle note di Supernature di Cerrone, parte della pazzesca soundtrack assieme a brani di Thomas Bangalter, i Dopplereffekt e Aphex Twin.
I titoli di testa compaiono solo dopo 45 minuti, nei quali i ballerini e le ballerine protagonisti festeggiano la fine delle prove in un edificio nel mezzo di una foresta e discutono dei più svariati argomenti. Con un primissimo piano sulla sangria, nella cui qualcuno ha messo dell’LSD a insaputa degli altri, Noé dà il via a una giostra raccapricciante in piano sequenza, e sbizzarrendosi (sempre con grande consapevolezza) con la macchina da presa dirige un ritratto di morte e disperazione che culmina in un finale rosso acceso ripreso al contrario in cui il tempo pare dilatarsi all’infinito, quasi ci si trovasse all’inferno.
Peculiarità di Climax, basato su una storia vera senza però il risvolto orrorifico, è che è stato girato in sole due settimane ed è perlopiù il frutto dell’improvvisazione del cast, composto quasi interamente da attori non professionisti – fanno eccezione solo Sofia Boutella e Souheila Yacoub.
High Life e la hard sci-fi autoriale
Diretto dalla leggendaria Claire Denis, autrice di Beau Travail e Trouble Evey Day, High Life segna il primo film di fantascienza per la regista, nonché il primo film girato completamente in lingua inglese. Anche se la fantascienza era un genere prediletto dalla A24 ai suoi inizi, High Life segna il ritorno del genere nella casa di produzione dopo tanti anni. Essendo di Claire Denis, ovviamente, il film è alquanto sperimentale.
Utilizzando una narrazione non lineare, High Life usa l’escamotage fantascientifico per raccontare una storia di ossessione e di umanità: dei detenuti vengono spediti in una missione pericolosa su un’astronave, diretti verso un buco nero, nel tentativo di estrarne dell’energia rinnovabile. A bordo però i detenuti sono vittime di esperimenti, e perdono gradualmente la sanità mentale. Solo Monte sembra resistere al delirio, prendendosi cura della coltivazione del giardino artificiale e della crescita della sua figlia surrogata.
High Life è senza dubbio uno dei film più stimolanti ed impegnativi della A24 per la direzione non convenzionale di Denis e per i temi trattati. Rimane una visione essenziale per chi vuole studiare l’evoluzione della carriera di Robert Pattinson, accompagnato in questo film da attrici talentuose come Juliette Binoche e Mia Goth, recentemente protagonista dell’ultimo horror A24, X di Ti West.
L’affermazione: 2019-22
La terza fase della A24 è stata segnata dal ritorno di molti registi che avevano precedentemente visto i loro film prodotti o distribuiti dalla casa. Trey Edward Schults, già dietro la macchina da presa in Trisha e It Comes at Night, è tornato con Waves, mentre Sofia Coppola si è riunita con Bill Murray per On The Rocks; i due maestri del nuovo horror, Ari Aster e Robert Eggers, hanno rilasciato Midsommar e The Lighthouse; i fratelli Safdie hanno collaborato con Adam Sandler per Uncut Gems e Sean Baker con l’ex pornoattore Simon Rex per Red Rocket; Mike Mills e la coppia Scheinert-Kwan sono tornati rispettivamente con C’mon C’mon ed Everything Everywhere All at Once; infine, ancora Aster e Alex Garland arriveranno prossimamente con Disapponintment Blvd. e Men.
Tutti questi film confermano non solo il successo dei registi sopracitati, ma anche della A24 stessa, che dopo il boom è riuscita a consolidare ulteriormente la sua posizione nel panorama cinematografico non più solo americano ma mondiale, senza mai perdere di vista il suo obiettivo iniziale. La lungimiranza di cui si parlava prima è davvero la carta vincente di una casa che sembra ormai inarrestabile.
I grandi ritorni: Midsommar, The Lighthouse, Uncut Gems e The Green Knight
Midsommar è uno degli horror più celebrati degli ultimi tempi, recentemente definito da Martin Scorsese stesso uno dei film più indimenticabili di sempre. Il secondo film di Aster, di cui è stata rilasciata anche una Director’s Cut, esplora veramente l’aspetto più conturbante dell’horror, lasciando nello spettatore un senso di inquietudine e di fragilità emotiva che raramente si riesce ad ottenere, costruito attraverso momenti shock e rituali perturbanti. Il ritmo lento e la durata del film contribuiscono a rendere Midsommar un incubo ad occhi aperti, una spirale di follia e di traumi che portano ad un finale indimenticabile e profondamente disturbante, come solo il regista di Hereditary poteva fare.
The Lighthouse, il secondo film di Eggers dopo The VVitch, è un thriller psicologico d’epoca, ambientato verso la fine dell’800 in un faro marittimo. Il film trae molte ispirazioni dalla letteratura gotica di Edgar Allan Poe e H. P. Lovecraft, ma non racconta necessariamente una storia dell’orrore, anzi è più un delirio psicologico dei due guardiani del faro, interpretati dal duo vincente Robert Pattinson e Willem Dafoe. È difficile etichettare The Lighthouse in un genere ben preciso, poiché avrebbe anche degli elementi horror, visti i precedenti del regista, ma al tempo stesso tratta di temi molto più vasti, come l’epica mitologica, la psicoanalisi e la sessualità maschile. Il risultato è un film ipnotizzante, affascinante ed inquietante, un vero viaggio nella psiche dei due protagonisti, un film unico nel suo genere, e per questo incredibilmente accattivante.
Alla fine del 2019 esce l’ultimo film dei fratelli Safdie, che con Uncut Gems realizzano un’altra corsa contro il tempo ansiogena e piena di tensione. Il film sembra anche aver rilanciato la carriera di Adam Sandler, che dopo aver partecipato a film di poco successo, grazie a Uncut Gems è tornato sotto i riflettori, e sembra essersi dedicato a progetti più seri e drammatici, come i prossimi film Netflix Hustle e Spaceman. I Safdie si alleano nuovamente con il compositore Oneohtrix Point Never per creare un’atmosfera intrisa di angoscia e di tensione, in un crescendo ansiogeno che può solo finire in tragedia, in modo molto simile a Good Time. L’interpretazione di Sandler dell’amabile/odiabile Howard è sicuramente uno dei punti di forza del film, ma anche il sound design e il montaggio frenetici e confusionari contribuiscono a destabilizzare e confondere lo spettatore, che naufraga in questo attacco d’ansia sensoriale.
Inizialmente pianificato per il 2020, The Green Knight ha subito il fato di tanti altri film di quel periodo, e la sua uscita in sala è stata posticipata all’anno successivo. Forse è stata una fortuna, visto che il montaggio originale non piaceva molto al regista David Lowery, che ha passato i sei mesi del lockdown a montare una versione che lo soddisfacesse di più. E in effetti il risultato finale è un film più che soddisfacente: The Green Knight è valso la lunga attesa. Attraverso un uso molto consapevole della fotografia e dell’iconografia, il film è pieno di simboli e richiami alla mitologia arturiana, e dà nuovo respiro al genere fantasy medievale, che era ormai stantio ma molti anni. Lowery ha dimostrato nel corso della sua filmografia di essere un regista molto poliedrico, capace di mantenere un suo stile pur cambiando spesso genere.
I ritratti familiari della A24: The Farewell
Se c’è un genere di film che la A24 adora produrre, è quello dei ritratti familiari: film già citati come Room, The Florida Project, Lady Bird ma anche Minari di Lee Isaac Chung e 20th Century Women, diretto dal regista di C’mon C’mon, eccellono nel raccontare i drammi e le difficili dinamiche che si creano in un nucleo familiare. Persino Hereditary, che è a tutti gli effetti un horror, dedica molto tempo alla rappresentazione della famiglia Graham.
The Farewell è forse il film che incarna al meglio questo filone: nel film di Lulu Wang infatti la giovane Billi torna dalla sua famiglia in Cina, dopo aver scoperto che alla nonna è stato diagnosticato un cancro ai polmoni. Tutta la famiglia si riunisce per passare quelli che probabilmente saranno gli ultimi momenti con Nai Nai.
The Farewell riesce quindi a confezionare un racconto molto semplice e molto toccante, tanto elementare quanto efficace nell’esecuzione, tratteggiando alla perfezione, nel loro piccolo, tutti i membri della famiglia, dai personaggi più umoristici a quelli invece più profondi, primi tra tutti Billi e Nai Nai, interpretate da Awkwafina e Zhao Shu-zhen.
Inoltre il film non è affatto scontato, e utilizza la trama del cancro della nonna per raccontare invece la storia non solo di una famiglia, ma di una realtà culturale molto diversa da quella occidentale che conosciamo, proponendo spunti di riflessione e di moralità, regalando più di una semplice storia. The Farewell è stata una gradita sorpresa per tutti, ed è stato per questo premiato in molti festival in tutto il mondo.
Minari, un film fatto col cuore
Nel 2020, Parasite di Bong Joon-ho è stato il primo film non americano e coreano a vincere nella categoria più importante agli Oscar. L’anno successivo, Minari ha fatto nuovamente la storia: Youn Yuh-jung si è aggiudicata il premio per la miglior attrice non protagonista, prima volta per una coreana.
Scritto e diretto da Lee Isaac Chung, Minari segue le vicende della famiglia Yi, di origine coreana, che si trasferisce dalla California all’Arkansas in cerca di fortuna. Le mille difficoltà e gli impegni lavorativi impongono però ai due coniugi Jacob e Monica (Steven Yeun e Han Ye-ri) di chiamare la madre della seconda, Soon-ja (Youn Yuh-jung) dalla Corea del Sud per aiutarli ad accudire i loro due figli, David (Alan Kim) e Anne (Noel Cho).
Il punto di forza del film, basato sull’infanzia del regista, è la sua infinita dolcezza. Minari indaga soprattutto il rapporto tra Soon-ja e il nipote David, inizialmente diffidente nei suoi confronti, e nel farlo naviga sia i momenti distesi che quelli più drammatici con gran cuore e sensibilità. Parallelamente, mostra quanto possa essere difficile per una famiglia immigrata in una nuova terra e cultura riuscire ad ambientarsi e a trovare il proprio posto. Preparate i fazzoletti: le lacrime sono assicurate.
C’mon C’mon, uno spaccato generazionale
Dopo aver diretto nel 2016 20th Century Women, Mike Mills torna alla A24 per realizzare il recente C’mon C’mon, con Joaquin Phoenix (qui la nostra recensione completa). L’ultimo successo della casa di produzione rientra nel filone familiare, delineando un bellissimo rapporto tra zio e nipote, immerso nei paesaggi urbani di New York e Los Angeles. Girato in un sognante bianco e nero, il film è intramezzato da scorci sulle città, sull’attività urbana e sui movimenti dei mezzi, dei veri quadri viventi che contribuiscono a creare l’atmosfera sospesa e astratta del film.
Infatti C’mon C’mon non parla solo del rapporto familiare, ma anche dei pensieri e delle aspettative dei giovani: il film dà voce ai dubbi e alle speranze della nuova generazione, raccogliendo interviste fatte a bambini veri, non attori, rendendo il film una vera testimonianza sul mondo che viviamo, uno spaccato sui pensieri di ragazzi e ragazze che stanno vivendo uno dei periodi più incerti e bui del nuovo millennio. La sensibilità di Mills e l’interpretazione toccante e raffinata di Phoenix vanno solo ad arricchire questo ritratto familiare e generazionale, che ha anche lanciato i riflettori sul giovane talento di Woody Norman, che interpreta il problematico nipote di Johnny.
Inseguire le proprie radici: The Last Black Man in San Francisco
Come Moonlight, anche The Last Black Man in San Francisco, debutto alla regia di Joe Talbot, esplora la mascolinità performativa all’interno della comunità nera americana. Nel gruppo, essere uomini vuol dire aggressività e violenza. La sensibilità è donna, l’amicizia è omosessuale. Questo tema si interseca con quello del dramma ambientale – l’elevato inquinamento dell’acqua causato dai pesticidi, dal mercurio e da altri metalli pesanti uccide le creature marine – e della gentrificazione, che ha reso i quartieri un tempo abitati dai neri sempre più popolati da bianchi.
La storia si ispira a quella di Jimmie Fails, che recita nei panni di sé stesso (seppur con qualche variazione) accanto al migliore amico Montgomery (Jonathan Majors). Il sogno del protagonista è quello di riavere indietro la casa vittoriana costruita dal nonno dalla quale è stato sfrattato col padre per l’aumento vertiginoso dei costi.
La città di San Francisco è immortalata dalla regia suggestiva e sostenuta e attraverso le scene di skating di Fails, come quella con Somebody to Love dei Jefferson Airplane a cappella. L’atmosfera è a tratti surreale, mentre i toni virano in certi punti verso la commedia nera.
First Cow e la nuova corrente del cinema indipendente
La A24 è famosa per aver lanciato nel corso della sua attività diverse piccole mode nella scena del film indipendente americano. Se lo scorso decennio è stato segnato da horror lenti e atmosferici come The VVitch e Saint Maud, la nuova corrente sembra essere quella dedicata agli animali: Lamb (sempre della A24), Pig, Wolf, Dog, Cow, sono tutti film usciti nel corso di questi ultimi due anni. Ma prima di tutti questi c’era, ironia della sorte, First Cow, diretto da Kelly Reichardt.
Il tono e l’estetica utilizzati in First Cow sono, ovviamente, elementi che verranno più o meno ripresi nei film sopracitati, e che comunque prendono a loro volta ispirazione dagli horror della A24: entrambi infatti sono caratterizzati da un ritmo lento e da un’attenzione particolare rivolta ai dettagli naturali dell’ambientazione, dal colore dell’erba al suono degli animali del bosco. Lo stile rilassante e cullante di First Cow è stato da molti paragonato all’ASMR.
È veramente ironico come la A24 continui ad influenzare l’andamento del cinema indipendente, anche in un aspetto così piccolo come quello dei titoli: dopo First Cow infatti si è vista un’ondata di film che rivolgono una particolare sensibilità al mondo animalesco, dagli intimi Pig e Cow, agli horror Lamb e Wolf. Nonostante tutto, First Cow rimane un film sorprendentemente toccante e delicato, anche se è passato molto inosservato al di fuori del mercato statunitense.
Il Coen solitario: The Tragedy of Macbeth
Scritto e diretto da Joel Coen, questa volta solo dietro la macchina da presa, The Tragedy of Macbeth è l’ultimo adattamento dell’omonima opera di Shakespeare ed è stato rilasciato su Apple TV+ nel gennaio del 2022 dopo il debutto al New York Film Festival e nelle sale statunitensi.
La pellicola è raffinata ed esteticamente ricercata; ogni inquadratura è il frutto di una composizione meticolosissima. L’impostazione è fortemente teatrale, l’atmosfera è rarefatta e le scenografie sono minimali. L’utilizzo dei 4:3 consente un focus particolare sui volti dei protagonisti, interpretati da un cast d’eccezione sul quale spicca Frances McDormand nel ruolo di Lady Macbeth, mentre il bianco e nero contribuisce assieme ai giochi di luce a ingrandire quel senso di tragedia imminente che permea il film.
Il punto di forza di The Tragedy of Macbeth è che riesce allo stesso tempo a essere accessibile a tutti ma anche a parlare direttamente agli appassionati della tragedia. Intrattiene quanto deve, senza però rinunciare all’essere un prodotto elevato. Un bilanciamento perfetto e vincente.
A24 nella serialità: Euphoria
Un lato della A24 di cui non si è parlato finora è quello seriale. Nel 2015 è stata annunciata la nascita di una divisione televisiva ed è andata in onda Playing House, seguita poi, tra le altre, da Comrade Detective e Ramy. Nessuna di queste serie ha però ottenuto successo in Italia per la distribuzione assente, travagliata o poco nota. L’unica che ha avuto una risonanza praticamente planetaria è stata Euphoria, scritta e diretta da Sam Levinson.
La seconda stagione, andata in onda all’inizio del 2022, ha registrato una media di oltre 16 milioni di spettatori per puntata, divenendo la serie HBO più vista di sempre dopo Game of Thrones. Il motivo di questa popolarità sta nella capacità di Euphoria di parlare ai più giovani senza patinature e stereotipizzazioni, con uno stile narrativo originale e un comparto tecnico strabiliante. Tra i temi affrontati, la tossicodipendenza, i danni della cultura pornografica, l’abuso e la repressione.
Nonostante il progressivo calo qualitativo, Euphoria è un prodotto estremamente interessante: ha creato nuovi trend nel mondo della moda e del make-up, lanciato attori e attrici perlopiù poco noti, riportato in auge la pellicola Ektachrome e monopolizzato il dibattito social per mesi. Si tratta, insomma, di un vero e proprio cult che vale la pena vedere se non si vuole perdere un pezzo fondamentale della serialità contemporanea di cui si parlerà ancora a lungo.
Il futuro della A24: quali sono i film più attesi
La A24 continua ad incassare successi e non dà segni di fermarsi. Ecco un piccolo excursus sui prossimi progetti della casa di produzione statunitense:
The Souvenir e The Souvenir: Part II: anche se sono usciti negli Stati Uniti rispettivamente nel 2019 e nel 2021, i due film di Joanna Hogg non sono ancora stati distribuiti in Italia, e non si sa se o quando arriveranno mai sui nostro schermi. Vale però la pena di menzionarli e di recuperarli, poiché segnano l’esordio attoriale della figlia di Tilda Swinton e John Byrne, la talentuosa Honor Swinton Byrne, che recita la parte semi-autobiografica della regista, ricreando le sue prime esperienze nel mondo del cinema. Nel cast anche Tilda Swinton e Richard Ayoade.
Anche il già menzionato Red Rocket di Sean Baker è già uscito in madrepatria, segnando la seconda collaborazione tra il regista e la A24. Girato in meno di un mese, Baker torna alle sue radici provocatorie, raccontando la storia di un porno divo che cerca di rimettere in sesto la sua vita, di fatto rovinandola combinando un pasticcio dopo l’altro. Nel cast Simon Rex e Suzanna Son.
After Yang, scritto e diretto da Kogonada, apprezzatissimo regista di Columbus e della nuova serie tv Apple Pachinko, è un toccante film fantascientifico sul rapporto tra una famiglia e il loro bambino robotico danneggiato. Nel cast Colin Farrell e Haley Lu Richardson.
X, scritto e diretto da Ti West, è un horror che omaggia i vecchi slasher anni ’70, soprattutto The Texas Chain Saw Massacre, ma trattando anche temi come la vecchiaia e la nostalgia della gioventù. Il film, già uscito in America, ha già in attivo un sequel, Pearl, girato segretamente subito dopo la fine delle riprese di X. Nel cast Mia Goth, Jenna Ortega e Brittany Snow.
Everything Everywhere All at Once, il film che sta attualmente spopolando negli stati Uniti, vede il ritorno in A24 dei registi di Swiss Army Man, ed è una sgangherata storia ambientata nel multiverso, in cui una donna scopre che deve connettersi con le versioni di se stessa di diversi universi paralleli per impedire la distruzione del multiverso. Nel cast Michelle Yeoh, James Hong e Jamie Lee Curtis.
Anche Men segna un grande ritorno in casa A24, da parte di Alex Garland, che a distanza di 8 anni da Ex Machina realizza un horror psicologico con Jessie Buckley e Rory Kinnear, che interpreta tutti i ruoli maschili del film.
Marcel the Shell with Shoes On è un mockumentary, sequel dell’omonimo cortometraggio del 2010, sempre diretto da Dean Fleischer-Camp e co-sceneggiato da Jenny Slate, che presta anche la voce a Marcel. Nel film la piccola conchiglia parte alla ricerca della sua famiglia, con l’aiuto di un regista di documentari.
Bodies Bodies Bodies è uno slasher che ha avuto molto successo nei festival, e che promette di diventare un nuovo cult favorito dai fan degli horror A24. Nel cast Amandla Stenberg, Pete Davidson e Rachel Sennott, l’attrice protagonista di Shiva Baby.
Non ha ancora una data d’uscita l’atteso Disappointment Blvd., nuovo film Ari Aster con Joaquin Phoenix. Poco si sa della trama, ma pare si tratti di una commedia horror.
New entry in casa A24: Darren Aronofsky tornerà sul grande schermo con The Whale, con Brendan Fraser e Sadie Sink. Il film parlerà del riavvicinamento tra un uomo che pesa 270 chili e sua figlia adolescente.
Infine sarà firmato A24 l’esordio alla regia di Jesse Eisenberg, con il suo film When You Finish Saving the World, una tragicommedia basata sull’omonimo podcast, sempre scritto da Eisenberg. Il film sembra essere un dramma familiare, che tratterà anche di musica e di abusi domestici. Il film è prodotto da Emma Stone, mentre nel cast troviamo Julianne Moore e Finn Wolfhard.
In copertina: Artwork by Alessandro Cavaggioni
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