In una Roma che non conosce “dolci vite”, Accattone porta sullo schermo quel sottoproletariato che Pasolini vede rapidamente morire, inghiottito nel gorgo profondo del qualunquismo, del conformismo borghese di una città che va conoscendo il suo lato disumanizzante.
Le borgate, a Roma, non esistono più. Ci sono le periferie, quei grandi agglomerati urbani sorti ai margini della vita pulsante, quegli immensi paradisi dei palazzinari nati da una colata di cemento figlia della speculazione edilizia rampante, con un palazzo di quattro piani affiancato da un casermone che ne conta quindici, duecento famiglie, volti sconosciuti.
La cecità di una pseudo-borghesia
L’Italia del boom economico ha prodotto benessere e appiattimento sociale, il sogno del “vorrei ma non posso” ha dato vita a una pseudo-borghesia cieca e del tutto arida, che considera la tv al plasma come lo status symbol volto a segnare una linea di demarcazione: normalità e anomalia, dentro e fuori.
Quello a cui assistiamo oggi è lo strascico infinito dell’appiattimento prodotto dal benessere sociale ipocrita degli anni Sessanta, quello dell’Italia che iniziava a lavare i panni sporchi in casa propria lasciando quelli degli altri – gli esclusi – a marcire sul pavimento sporco di una baracca, in mezzo al nulla, ai margini della periferia e della vita.
La stessa periferia disastrata di allora – e che oggi, dopo l’espansione scellerata, è diventata semi-centro – è il teatro delle vicende dei Ragazzi di vita cinematografici, quegli emarginati che solo Pier Paolo Pasolini ha saputo raccontare, simboli di una Roma ancora bonaria che non conosce Dolci vite ma si muove tra Casilina, Portuense, Acqua Santa, Testaccio, Pigneto e Centocelle. Accattone (1961) segna l’esordio sul grande schermo del poeta di Casarsa, ma al contempo è ulteriore riflessione sul bene e sul male, sul margine di scelta tra essi lasciato al sottoproletariato.
Di cosa parla Accattone
Il protagonista Vittorio (Franco Citti) è un miscuglio di inerzia e piccola criminalità, è l’emblema dell’esclusione dalla vita sociale e politica oltre che dai meccanismi umani che lo circondano. È il classico fannullone di borgata che si fa mantenere da una donna (di strada), che quando finisce in carcere smette di dar da mangiare anche a lui, il quale piuttosto che cercare un lavoro vive d’inedia e delinquenza, senza risalire dal baratro nemmeno per amore di Stella (Franca Pasut).
I destini incrociati dei personaggi-esclusi si muovono sullo sfondo dell’Italietta borghese, quella che rasentò il linciaggio del film a causa dei temi trattati (sfruttamento della prostituzione e degrado) e condannò all’ostracismo perenne uno dei più grandi intellettuali del Novecento. Il perbenismo tipicamente nostrano trovava sconveniente l’umana solidarietà mostrata da Pasolini nella sua opera, l’idea che non si nascondesse sotto il tappeto la sporcizia dell’indegno, dell’invisibile agli occhi spenti della borghesia.
Vittorio Cataldi detto Accattone è quanto di più lontano possa esserci dalla facciata (in)stabile dei santi valori. È ignorante, arrabbiato, “magnaccia” e parassita. Vaga come un’anima in pena in una Roma disastrata e lontana dai salotti, ha dietro di sé un simbolo, un richiamo cristologico che Pasolini nasconde su un ponte, in una statua, dietro a una strada abbandonata da Dio.
Quale vita racconta Pasolini
Accattone è l’orgoglio del non lavoro, e gli amici al bar lo deridono se ci prova, per amore, a cambiare almeno un po’. Ma com’è possibile cambiare se la vita ti offre zero, se sei cresciuto seguendo il codice della strada, e i soldi rubati sono facili, non sudati? Accattone ama Stella ma è furbo e già segnato, ruba la catenina al figlio (avuto con una donna che non vuole più vederlo) per comprarle vestiti e scarpe, a lei che sta mandando a prostituirsi come Maddalena (Silvana Corsini) che è andata “al fresco” in gattabuia.
Vittorio è relegato a un ruolo da cui non sa e non vuole uscire, perché persino la morte in sogno mostra l’inettitudine di un personaggio passivo, incapace di scegliere anche la propria tomba. “Er mondo è de chi c’ha li denti” e rubare e vivacchiare non sempre è pane per i denti giusti; l’ultimo furto, quello fatale, è il più misero e beffardo scherzo che il destino può giocare a un Accattone che da perdere non ha più niente. Morire per un furto di salame.
La vita è dura, caro Vittorio, e dopo una corsa che sembra un’illusione non resta altro da fare che chiudere gli occhi e mormorare – sulle note de La passione di San Matteo di Johann Sebastian Bach – “Ah, mò sto bene”. Non c’è più spazio per gli emarginati nella società, e la vita fa selezione naturale; ingiusta, del tutto vergognosa, ma naturale.
L’amarezza di Accattone
Nella pellicola pasoliniana e nel suo protagonista c’è l’amara consapevolezza di un popolo vivo e forte che va spegnendosi, che spara le sue ultime munizioni prima di venir inghiottito nel gorgo profondo del qualunquismo, del conformismo borghese di una città che va conoscendo il suo lato disumanizzante. Quello di Pasolini è un atto d’accusa verso la borghesia “più ignorante d’Europa“, quella pronta a battersi il petto in Chiesa dopo aver ignorato “l’altro” che le cammina accanto: “Il genio comincia col dolore, la stupidità con l’euforia o la genuflessione all’ordine dominante”.
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