Akira usciva nelle sale giapponesi 35 anni fa: era infatti il 1988 quando Katsuhiro Ôtomo presentò al suo paese il film che cambiò radicalmente sia il modo di fare gli anime, per il Giappone, che il modo di guardarli, per il resto del mondo. Fu il progetto più ambizioso che l’intero cinema giapponese avesse mai visto (se escludiamo la decisione di Miyazaki di rimettersi alla regia a 82 anni), poiché univa simbolicamente le più importanti case di produzioni del tempo in un Akira Committee, ovvero un’azienda creata appositamente per il film. Il risultato è un’opera monumentale, nell’estetica e nella forza narrativa stratificata: gli strascichi luminosi della moto di Kaneda, in fondo, non hanno mai smesso di forgiare giovani menti dell’animazione.
Akira, il film controcorrente
Fin dal suo debutto, Akira ebbe un discreto successo, che però risultò insufficiente a ripagare l’investimento iniziale. Ci pensò il mercato mondiale – che vide la distribuzione del film nei due anni successivi – a risanare le casse dell’effimera Akira Committee (caso a parte per l’Italia, in cui il film approdò solo nel 1992). L’incerta risposta del pubblico fu comunque giustificata: Akira era stato pensato per un’era che in realtà gli remava contro.
Gli splendenti anni ’80, brillanti di luce al neon, rappresentarono, anche per il Giappone, un periodo di trasformazione sociale e tecnologica; in particolare, il Paese fece jackpot avviando una strategia duplice: da una parte, conservando un imperialismo tradizionale, mai sepolto, e, dall’altra, offrendo una sana apertura all’Occidente. Akira mostrava quel mondo in decadenza, ne metteva in luce il marcio, ambiva a una contro-rivoluzione culturale che innanzitutto facesse prendere coscienza al popolo giapponese, adagiato in un dormiveglia consumista.
La trama di Akira non poteva che seguire, quindi, un ritmo decisamente sopra le righe. Nella Neo-Tokyo del 2019, 30 anni dopo la terza guerra mondiale che ha raso al suolo Tokyo, Tetsuo e Kaneda fanno parte di una gang di motociclisti inclini alla violenza e al vandalismo. La loro vita, tutto sommato, è la normalità a Neo-Tokyo, che dopo la guerra non ha conosciuto altro che violenza e degrado, anche a causa di un governo composto da oligarchi corrotti e inetti. Quando, però, Tetsuo scopre di avere poteri anormali, impazzisce, e Kaneda cercherà di salvarlo. I ragazzi però non sanno che un progetto militare segreto sta per distruggere Neo-Tokyo.
Aldilà delle realtà apparenti
Akira non è un qualunque film sci-fi con una buona resa estetica. È tutto fuorché semplice, e sarebbe addirittura riduttivo classificarlo come un normale film di fantascienza. Spesso vengono dette molte cose positive su Akira che travisano il suo punto focale; e non è una sorpresa che, come tutti i capolavori riconosciuti della storia del cinema, sul film si spendano fiumi di parole che ne elogiano la qualità artistica, la sottigliezza dei dialoghi e dei temi e la coraggiosa retorica pacifista. Ma questi discorsi sono inutili, se non si arriva nel fondo della questione.
Infatti, sarebbe assolutamente superficiale menzionare Akira senza accennare al tema del potere, inteso come qualsiasi forma che esso può assumere, nel bene e nel male. Per citare la Treccani, è potere tutto ciò che è “dominio, balìa, possesso”.
Un’analisi miope di Akira partirebbe dalle sue fondamenta estetiche e lì si fermerebbe: una bomba atomica che esplode, una scritta in sovraimpressione che ci proietta nel futuro, e poi una città deforme, fatta di altissimi palazzi accostati a fogne putride e fangose.
Notare i problemi evidenti della società di Neo-Tokyo è semplice al punto da risultare scontato. Ôtomo, però, li mette in bella mostra e li sfrutta come espedienti narrativi, trappole per sciocchi: sono MacGuffin che rivelano una realtà apparente con lo scopo di nascondere il nocciolo più pericoloso. Neo-Tokyo è una condizione, ma non il punto finale.
Akira, un potere per domarli e nel buio incatenarli
La tematica del potere è una presenza fissa e ingombrante d’altronde: per Tetsuo diventa quasi impossibile gestire il proprio, la sua potenza è la sua stessa rovina ed è una minaccia incombente per tutto il film. Tetsuo non può far altro che espandersi e inglobare qualsiasi cosa, finché non arriva al punto di rottura, ovvero all’autodistruzione del potere stesso. E in questo senso, se la trama principale è un MacGuffin, se lo sono protagonisti che vivono in una città come degli emarginati e reietti, dove la scuola è fatta più per castigare che per imparare, e dove la strada è l’unica fonte d’ispirazione, allora Akira è un po’ come la valigetta di Pulp Fiction.
Un personaggio presente ma assente allo stesso momento, il centro gravitazionale della storia nonostante sia in un perenne stato di catalessi. La presenza di Akira è disarmante, si fa sempre più una visione trasparente: tramite una tecnica hitchcockiana, il suo involucro viene man mano sfogliato per rivelarne l’autenticità. Ma proprio per questo Tetsuo ne sottovaluta la forma, egli è completamente schiavo del suo stesso potere; la sua pazzia nasce da una decisione paradossale: sconfiggere la sua ossessione attraverso essa stessa. Vuole affossare quel potere misterioso che lo assilla, vuole abbatterlo per evitare di essere rinchiuso in un laboratorio, vuole tenerlo per sé perché, in fondo, ne è geloso.
Tetsuo è un illuso, tanto quanto lo è lo spettatore che pensa a lui come a uno schiavo del sistema. In realtà, la chiave di lettura dell’Akira di Ôtomo è sempre stata davanti ai nostri occhi: Tetsuo non nasce sottomesso di Neo-Tokyo, lo diventa quando scopre di avere poteri soprannaturali. Nel bene o nel male, la consapevolezza di avere per le mani un potere mai avuto prima diventa un gioco pericoloso e Akira è qui, da 35 anni, a dimostrarlo.
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