Tre bambini immaginano di esplorare lo spazio in una vecchia auto nei campi. Stanno vivendo un’avventura unica e frenetica, coi meteoriti che viaggiano sopra le loro teste. Ma basta si allontanino un attimo dal mezzo per vederlo penzolare per aria, tra le mani arrugginite di una gru la cui presenza è annunciata dal suo rumore ma palesata solo qualche minuto dopo, con un lento spostamento di 180° della macchina da presa. Il mostro è arrivato, dice Carla Simón, e porterà via tutto ciò a cui tenete.
Così si apre Alcarràs, ultimo Orso d’Oro a Berlino, ambientato nell’omonimo villaggio della Catalogna e parzialmente ispirato alle vicende biografiche di Simón, qui alla sua seconda prova registica dopo Estate 1993. Il film, uscito lo scorso 26 maggio nelle sale italiane, racconta il dramma della famiglia Solé, che si vede strappare via il terreno che ha coltivato con cura per decenni.
L’avidità spietata della modernità
Durante la guerra civile spagnola, la famiglia Solé ha offerto aiuto a un proprietario terriero. Questo, in segno di riconoscenza, ha concesso loro di prendersi cura dei suoi campi attraverso un accordo non ufficiale, rinnovato tacitamente di generazione in generazione. Col conflitto ormai lontano, però, l’ultimo latifondista rivendica il controllo del territorio per popolarlo di pannelli fotovoltaici. I Solé si ritrovano dunque con le mani legate, senza alcun pezzo di carta per difendersi.
A prima vista, può sembrare curioso che la costruzione di mezzi per implementare l’uso del rinnovabile sia presentata come un evento distruttivo. Il trucco è presto svelato: la scelta è dettata dalla maggiore prospettiva di guadagno ed è ben distante dall’etica ambientalista, tant’è che per far spazio ai pannelli vengono abbattuti i peschi. Un’insensatezza possibile, se non incoraggiata, nel capitalismo: in Catalogna c’è di fatto stato un boom di pannelli fotovoltaici, ha affermato Simón in un’intervista rilasciata per Cineuropa, ma il fenomeno ha poi subito una battuta d’arresto perché i profitti non erano quelli sperati.
Di fronte alla crisi, Quimet (Jordi Pujol Dolcet) non vuole arrendersi e adattarsi alle nuove esigenze del padrone, così punta tutto sull’ultimo raccolto, coinvolgendo come sempre i parenti. Alcarràs racconta questa determinazione – dettata, va detto, dalla profonda e disperata consapevolezza del dramma inevitabile – sfruttando un taglio simil-documentaristico e d’urgenza, che non punta tanto alla qualità fotografica (sebbene alcuni momenti siano visivamente notevoli) ma all’esplorazione del mondo interiore dei personaggi, travolti da un senso di smarrimento che fa vacillare anche gli equilibri familiari.
Alcarràs, la famiglia Solé tra crisi e tradizionalismo
Con un approccio registico alla Alice Rohrwacher ma spogliato del suo onirismo, Simón segue un cast composto da attori non professionisti con cui ha lavorato individualmente per costruirne i ruoli nella storia. Le loro interpretazioni sono dolcemente naturali, e tra un vecchio racconto e una canzone fanno subito affezionare ai Solé; si viene conquistati soprattutto dalla piccola Iris (Ainet Jounou) per la sua simpatia contagiosa e i suoi giochi fantasiosi in un contesto in cui vivere la propria infanzia (o anche solo averne una) sembra sempre più un miraggio.
Alcarràs non cade però nella rappresentazione idilliaca della situazione in cui sono immersi i protagonisti. Dopo una parte centrale affetta da una certa ripetitività, infatti, il film dà il meglio di sé assumendo la prospettiva dei due adolescenti della famiglia, Mariona (Xenia Roset) e Roger (Albert Bosch), e se ne serve per indagare quelle zone grigie più conservatrici della tradizione, legate alla chiusura e alla repressione. Lei non comprende il senso di certi eventi di stampo machista radicati nella cultura del villaggio ed è vittima di meccanismi comportamentali misogini, mentre a lui è impedito di coltivare e fumare liberamente marijuana.
Allo stesso tempo, quest’ultimo atto ritrae una popolazione stremata, che cerca faticosamente di sopravvivere a condizioni di vita sempre più inaccettabili; una popolazione che protesta, ma la cui voce resta inascoltata, e che paga con la vita l’avidità dei potenti. E così, alla fine, Alcarràs ci saluta con lo stesso mostro che ci ha accolto nell’incipit. Sempre più vicino, sempre più inesorabile.
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