Raccontare la realtà attraverso una storia inventata, riflettere sull’umanità e sulla natura dell’uomo, sul suo legame con il passato, il suo rapporto con il presente, il suo vivere in società o al di fuori di essa. Queste sono alcune delle premesse e delle costanti del cinema di Alice Rohrwacher, regista italiana tra le più interessanti del panorama contemporaneo.
Con solo tre lungometraggi all’attivo, e un quarto in uscita il prossimo 23 novembre ma presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023, Rohrwacher si è già conquistata lo status di regista affermata oltre che di autrice, termine oggi discusso e criticabile. Alice Rohrwacher è però autrice di straordinario interesse, capace di veicolare un pensiero coerente perfettamente strutturato e in questo modo sfaccettato e frammentato nei diversi film. Risulta per questo una voce unica nel contesto italiano, uno sguardo raro e prezioso. In occasione dell’uscita nelle sale del suo ultimo film, La chimera, esaminiamo alcune delle caratteristiche tematiche più rilevanti delle sue opere.
Il realismo sociale magico di Alice Rohrwacher
È possibile posizionare l’intera opera di Alice Rohrwacher sotto il cappello del realismo sociale, categoria con la quale ci si riferisce a opere che pongono al centro la quotidianità e le condizioni di vita di persone appartenenti alle classi sociali più povere, contadini o piccoli lavoratori, che faticano o vengono sfruttati a vario modo. L’attenzione è solitamente puntata sul rapporto che queste persone intrattengono con le strutture sociali, un rapporto spesso conflittuale, contraddittorio e multiforme.
Ma il realismo di Alice Rohrwacher forse più che sociale è un realismo magico, non tanto per la presenza di elementi surreali, ma più che altro per l’atmosfera rarefatta che consente di collocare le storie raccontate al di fuori dal tempo, per l’evocazione più che per la narrazione della storia. Lo sguardo con cui Alice Rohrwacher osserva la realtà è sempre delicato, poetico e le permette di allontanarsi dal rigido realismo o dal freddo documentario (genere a cui è comunque molto affezionata), questo anche grazie alla collaborazione costante con la direttrice della fotografia Hélène Louvart.
La scelta estetica e quella narrativa vanno di pari passo, compiendo l’operazione di trascendere dalla tangibilità del reale e approdare invece a un’astrazione lirica, fantastica. Ciò che più colpisce nelle storie raccontate da Alice Rohrwacher è la compresenza ripetuta di intimo e sociale, le storie personali si intersecano e si inseriscono all’interno di contesti sociali altrettanto rilevanti, le due prospettive si intrecciano continuamente, si riflettono e si fortificano a vicenda.
I tre lungometraggi della Rohrwacher presentano tutti caratteristiche riconducibili a questo realismo sociale magico, prima tra tutte le ambientazioni rurali, luoghi poveri che spesso hanno delle note di autobiografismo. Alice Rohrwacher, infatti, trascorre l’infanzia in un piccolo paese in provincia di Terni, nella zona storicamente conosciuta come Etruria, luogo di origine della madre e in cui il padre (di origine tedesca) svolge il lavoro di apicoltore.
Un riferimento esplicito si ritrova ne Le meraviglie, il film del 2014 che racconta le vicende di una famiglia allargata che si dedica alla produzione del miele, all’allevamento di pecore e alla coltivazione di vari prodotti. La storia si svolge nella campagna umbra e il casolare in cui vive la famiglia sembra non avere mai incontrato il presente, fermandosi a un passato imprecisato.
In questo modo l’intera storia, pur avendo elementi che non nascondono la collocazione temporale, li fa dimenticare molto spesso, sganciandosi dal tempo e divenendo per questo eterna, veicolando quindi anche valori e riflessioni definibili al di fuori del tempo. A essere continuamente esaltate sono le fatiche compiute da questa famiglia, non solo dagli adulti ma anche dalle bambine, per sopravvivere in questa realtà ognuno deve dare il suo contributo e ognuno deve lavorare.
Molto simile è l’ambientazione di Lazzaro felice, del 2018. Alice Rohrwacher sceglie in questo caso la campagna laziale, con al centro la tenuta della marchesa De Luna, l’Inviolata, in cui lavorano una cinquantina di contadini impegnati nella coltivazione del tabacco. A contribuire alla sospensione temporale è in questo caso la perpetuazione, da parte della marchesa, della mezzadria, cosa che colloca la prima parte del film in una dimensione rurale che sembra appartenere al passato di memoria verista.
La seconda parte, invece, si sposta in una dimensione cittadina, periferica e desolata dove però i protagonisti non riescono a elevarsi e rimangono ancorati alla miseria degli ultimi posti di una ipotetica classifica sociale. Ciò che distingue Lazzaro felice da Le meraviglie è però l’aggiunta di un elemento sovrannaturale nel contesto totalmente concreto del mondo contadino e la successiva richiesta allo spettatore di sospensione dell’incredulità e adesione alla realtà raccontata.
Corpo celeste, del 2011, un po’ si discosta dagli altri due film perché ambientato a Reggio Calabria, non una zona di campagna ma totalmente cittadina. Quello delineato da Alice Rohrwacher rimane, però, sempre un contesto povero, degradato, non solo materialmente ma anche umanamente e spiritualmente, reso in maniera cruda, senza abbellimenti ma, anzi, quasi con uno sguardo grottesco che amplifica le brutture. La povertà si ritrova negli interni scarni, modesti, negli esterni mal tenuti e sporchi, in questo senso l’ambientazione diventa riflesso dell’animo dei personaggi, un’intimità misera che non riesce a migliorare il luogo che abita.
Vita in società o al di fuori di essa
Una delle caratteristiche più forti e ricorrenti nelle opere di Alice Rohrwacher è proprio la contrapposizione tra il vivere in società o al di fuori di essa, quindi da una parte aderire a regole imposte e rispondere a desideri consumistici e dall’altra vivere secondo una libertà personale che appaga di più di qualsiasi altra possibilità. Questo concetto è legato anche a un’altra contrapposizione presente nell’opera di Alice Rohrwacher, che è quella tra passato e presente.
In un certo senso, quindi, decidere di vivere al di fuori della realtà civilizzata è anche mantenere viva la memoria del passato, riconoscere il valore della tradizione e cercare di farla durare, di tramandarla; al contrario aderire alla società imposta corrisponde a lasciarsi corrompere e perdere un po’ della propria autenticità. Questo elemento è presente fin da Corpo celeste, ma assume una connotazione più strutturata e importante nei due film successivi.
In Corpo celeste la protagonista Marta è un’estranea all’ambiente in cui si svolge la storia, si è appena trasferita e deve quindi cercare di inserirsi e di entrare a farne parte. Vediamo questo tentativo di integrazione attuarsi attraverso il gruppo di catechismo frequentato da Marta in cui, però, la bambina rimane sempre isolata. L’isolamento è sia imposto che voluto e ci fa notare il grande scarto che c’è tra la protagonista e il resto della comunità che, come già detto, appare sgraziata e grottesca, ancorata a un passato che è difficile far evolvere.
Ci troviamo, infatti, in una zona del sud Italia in cui le tradizioni e le usanze sono più vive e sentite che in altre parti, ma quelle stesse tradizioni sono svuotate da ogni valenza. Una società abitata sì dalle figure della tradizione (il vescovo, la perpetua etc.), ma ognuna di esse ha perso la vera natura del proprio ruolo e incarna le peggiori derive della società contemporanea: la corruzione, l’egoismo, l’ignoranza.
Le meraviglie è forse il film in cui questa contrapposizione è meglio rappresentata da Alice Rohrwacher. La famiglia protagonista ha scelto di vivere una vita contadina, non ci è nata ma ha deciso di farla propria e di offrire alle proprie figlie una vita diversa al di fuori della società imposta. La scelta di vita si configura quindi come una sorta di utopia indipendente in cui però è difficile tenere lontano il mondo esterno che, infatti, si presenta alle porte di Gelsomina, la ragazza protagonista.
La modernità si mostra con le sembianze di un programma televisivo che potremmo definire trash, di una presentatrice dal volto di Monica Bellucci, della canzone tormentone T’appartengo di Ambra Angiolini direttamente da Non è la Rai. La società consumistica affascina le giovani ragazze e soprattutto Gelsomina che si trova a combattere con una doppia spinta dentro di sé, da una parte l’attaccamento alla famiglia e il non voler deludere quel padre così autoritario ma in fondo buono, dall’altra il desiderio di essere altro, avere altro, appartenere a un mondo più bello, più facile, più comodo del suo, un mondo che però, anche questa volta, si rivela sostanzialmente vacuo e insignificante.
In Lazzaro felice l’antitesi tra questi due modi di vivere è percepibile nello scarto della seconda parte del film in cui i protagonisti hanno abbandonato l’Inviolata e abitano la città ma sono costretti a vivere di espedienti, piccoli furti e trovate al limite della legalità. È un sopravvivere, il loro, e pur riconoscendo la sfruttamento subito sembra quasi di notare un certo rimpianto per la vita di prima, ormai perduta per sempre.
Queste sono solo due delle macro caratteristiche che rendono il cinema di Alice Rohrwacher così interessante e prezioso, all’interno di esse la regista inserisce di volta in volta argomenti ed elementi specifici ma sempre attinenti al mondo costruito. Attendiamo la visione de La chimera per ritrovarle ancora una volta, per entrare ancora una volta in questo mondo sospeso tra antico e moderno, tra nostalgia e presente, tra realtà e magia.
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