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Anatomia di una Caduta

Anatomia di una Caduta, un’autopsia della soggettività

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7 minuti di lettura

Una palla da tennis rimbalza di gradino in gradino, giù per una rampa di scale. Ogni tonfo rimbomba amplificato e sinistro nel silenzio della scena, come se la palla fosse fatta di carne e a ogni tocco un po’ di quella materia viva fosse danneggiata irrimediabilmente. Così inizia Anatomia di una Caduta, con il mesto presagio di una tragedia riassunta nella più semplice e metaforica delle immagini.

Anatomia di una caduta

Se ne Il Sospetto (1941) di Hitchcock l’intero film era condensato in un bicchiere di latte, forse avvelenato, portato al piano superiore attraverso una scala spiraleggiante, Justine Triet racchiude tutto in questa gelida inquadratura iniziale: una palla cade, il cane la raccoglie e il film inizia.

Anatomia di una Caduta e il gioco dei punti di vista

Anatomia di una Caduta

Anatomia di una Caduta, uscito nelle sale italiane il 26 ottobre dopo aver vinto la Palma d’Oro a Cannes 2023, è l’ultima fatica di Justine Triet e Sandra Huller, rispettivamente regista e attrice protagonista. Di fatto è il loro incontro a permettere a un film come questo di respirare e colpire nel vivo come riesce a fare: la precisione con cui ogni inquadratura è costruita e poi riempita dalla recitazione lo rendono un candidato perfetto a misurarsi con pesi massimi del circuito festivaliero internazionale come Saint Omer di Alice Diop o Una Separazione di Asgar Farhadi.

Il film segue il processo legale e mediatico a cui viene sottoposta una scrittrice dopo essere stata accusata di aver ucciso il marito spingendolo dall’ultimo piano della baita in montagna nella quale si erano trasferiti col figlio undicenne, primo ad aver trovato il cadavere dopo essere tornato da una passeggiata col cane. La camera di Triet si sofferma sul misurare ogni sguardo, ogni impercettibile espressione sui volti di madre e figlio, riuscendo a intrecciare gli sviluppi del loro rapporto con quelli legali del caso.

La regia di Anatomia di una Caduta colpisce, in realtà, proprio per come alterna i punti di vista, resi con diversi stili e registri: un momento noi spettatori ci sentiamo “mosche sul muro,” rei di intrometterci con primissimi piani e inquadrature sobrie nell’intimità di una famiglia, mentre l’istante dopo prendiamo parte al processo con bruschi zoom e camera a mano per evocare lo sguardo esterno e impietoso dei media che assistono alla vita di una donna processata più per le sue colpe sentimentali che effettivamente criminali.

Eppure, per tutto il film, regna la netta sensazione che Justine Triet voglia analizzare più che raccontare. Il titolo non è casuale: di “anatomie” al cinema ne abbiamo viste tante e anche parecchio illustri, a partire da Anatomia di un Rapimento (1963) di Akira Kurosawa (il cui titolo originale però non conteneva la parola “anatomia”), fino al capolavoro di Otto Preminger, Anatomia di un Omicidio (1959), uno dei migliori courtroom dramas della storia del cinema e direttissima ispirazione del film di Triet. Tutte queste pellicole operano con l’obiettivo di destrutturare, sviscerare i processi umani per poi analizzarne le singole componenti: ebbene Anatomia di una Caduta lavora con la stessa chirurgica freddezza dei suoi predecessori, ricostruendo “l’anatomia dei fatti.”

Autopsia soggettiva in Anatomia di una Caduta

Anatomia di una Caduta

Al centro della trama c’è un cadavere che, in una breve sequenza, viene studiato e analizzato pezzo per pezzo, per poi essere fotografato durante l’autopsia condotta dai coroner. Non disegnato, né descritto a parole, fotografato. La fotografia nasce come strumento scientifico prima che artistico e Anatomia di una Caduta vuole ricordarcelo, inscenando quella che a tutti gli effetti può essere definita come “autopsia della soggettività.” La fotografia è netta, diretta, il medium più oggettivo e appunto scientifico per sua stessa natura, dedito a cogliere il reale per com’è. Eppure la giustizia umana, contornata da moralità e sentimenti, non sembra essere tagliata per il distacco freddo e impietoso degli scatti di una macchina fotografica.

L’intero processo a cui è sottoposta la protagonista, viene sì inquadrato con la distanza di obiettivi televisivi, ma è continuamente contaminato dall’emotività di chi vi prende parte: l’avvocato difensore, amico di famiglia e persona per bene, è in realtà innamorato della sua cliente; mentre, fra i testimoni, compaiono prima un’ammiratrice dei libri della protagonista, poi il figlio stesso, unica altra persona presente al tempo del “delitto”. Nessuna testimonianza può essere scevra del coinvolgimento personale dei personaggi nei confronti dell’imputata e ogni parvenza di oggettività fa solo parte della farsa umana, continuamente alla ricerca della verità con la V maiuscola.

Justine Triet, nel filmare con scientifica precisione le reazioni, i sentimenti e le relazioni che compongono la giustizia terrena dimostra che in fondo non vi è nulla di oggettivo, solo impressioni, emozioni imbrigliate e sensazioni imprecise. Ne nasce dunque un meraviglioso ossimoro filmico, in cui il film stesso si pone come autopsia della soggettività umana, preciso e imparziale nel decretare che non esiste imparzialità.

Pare oggettivo che una palla che rimbalza giù per una rampa di scale non abbia nulla di sinistro da nascondere, eppure l’atmosfera e altre indefinibili sensazioni comunicateci dal film, ci convincono che quella palla non ce la racconta giusta. Questo è profondamente umano e intrinsecamente cinematografico.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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