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Anche Io, come è nata l’indagine su Harvey Weinstein

9 minuti di lettura

“Fu come se mi avesse rubato la voce, proprio quando ero sul punto di trovarla”. La voce è tutto ciò che serve a Maria Schrader in Anche io per raccontare una vicenda già riesumata dall’azione di altre donne, in un percorso di progressiva risonanza che vuole restituire la parola a chi è stata violentemente sottratta.

Anche io, al cinema dal 19 gennaio, è l’asciutta ricostruzione di un duro lavoro di indagine, confessione e denuncia che il New York Times condusse per portare alla luce anni di soprusi, violenze e abusi perpetuati dal produttore Harvey Weinstein a danno delle donne che lavoravano con lui. Le giornaliste che si occuparono dell’inchiesta sono Jodi Kantor (Zoe Kazan) e Megan Twohey (Carey Mulligan): l’introduzione, lo sguardo e la sensibilità che orientano lo spettatore nella conoscenza dei fatti, sia nella storicizzazione degli eventi sia all’interno della diegesi filmica.

All’afonia forzatamente indotta, Anche Io risponde chiedendoci un unico importante favore: ascoltare.

Anche Io, prima e dopo il #MeToo

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Nel 2020 irrompevano sul piccolo e grande schermo due prodotti destinati a far discutere, entrambi spinosi, crudi e virtuosi nel trattare la condizione femminile. Carey Mulligan era la donna promettente dell’omonimo lungometraggio di Emerald Fennell; Maria Schrader esordiva su Netflix con la miniserie Unorthodox.

Il respiro era differente, le storie distanti ma con un denominatore comune: si inserivano nel solco appena scavato dal Me Too, parlavano di autoaffermazione, auto-regolazione, difesa e controllo dell’identità in contesti di violenza e sottomissione. Anche io non è solo figlio dell’inondazione scatenata dal Me Too, è il suo antenato più vicino: il reportage delle sue premesse come forza straripante del singolo e della comunità.

La storia si apre con una matriosca di inchieste di cui il New York Times decide di occuparsi, indagando trasversalmente sugli ambienti di lavoro tacciati di molestie. Megan Twohey è impegnata a seguire le tracce degli abusi compiuti da Donald Trump, in corsa alle presidenziali del 2016. Il fil rouge delle voci con cui iniziamo a familiarizzare si avvita su due elementi cardine: la vergogna e un generale senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni.

La provocazione è evidente fin dai primi minuti di Anche Io: la denuncia riportata dal film non si risolve nella figura di Weinstein ma incede nell’esposizione di un sistema obliquamente corrotto, abusante e indifferente.

Cinque mesi dopo, quella che Jodi e Megan stanno portando avanti è un’investigazione giornalistica ostinata, avvalorata da fatti, supportata da prove, ritoccata per mesi prima di essere pubblicata. Il movente all’indagine è una soffiata sulle accuse mosse al produttore della Miramax, spunto di propagazione della difficoltosa raccolta di rivelazioni aggregata dalle due reporter in seguito al confronto con svariati esponenti dell’industria cinematografica: attrici note (Ashley Judd, Gwyneth Paltrow), assistenti, segretarie e collaboratrici di Harvey Weinstein. Tutte vittime di un medesimo schema predatorio, tutte messe a tacere con lo stesso modello d’azione: il silenzio, il ricatto, la stroncatura e dei soldi in cambio di una vita interrotta.

Anche io: in campo c’è solo la voce

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La Schrader percorre la strada della ricostruzione a parole degli abusi subiti, sommando chirurgicamente i racconti e asciugandoli da tutto il superfluo: la linfa di Anche Io non è da ricercare nella rappresentazione né nella sua esplorazione patemica. Pur riuscendo a creare una vicinanza empatica ed emotiva con quanto narrato, le denunce sono sempre posizionate su un piano d’ascolto, anche nelle poche occasioni in cui l’immagine coadiuva la voce.

Campi lunghi e vuoti raccordano una sequenza in dissolvenza di corridoi d’hotel, con porte che ostruiscono la visione, filtrando il sentire delle prevaricazioni di Harvey Weinstein e la sofferenza, il timore e l’ostaggio delle sue vittime. Lo spettatore è testimone invisibile di un atto di cui si evocano soltanto le schegge. Anche quando lo sguardo è ammesso all’interno delle stanze, la macchina da presa si limita a vorticare rispettosamente, e senza voyeurismo, tra i letti, i vestiti e gli averi personali -smaterializzati, inanimati e svuotati- delle ragazze adescate.

La violenza e l’intimidazione sono relegate al fuoricampo, doverosamente celate in una totale assenza di estetizzazione. Lo stesso trattamento è riservato a Weinstein, mai in campo se non di spalle in una singola occasione, perché il film non è per su di lui.

All’impossibilità di denunciare si accompagna quella di ricominciare: gli accordi di riservatezza firmati, le transazioni ricevute in segno di risarcimento e in pegno del proprio silenzio sono solo una faccia dell’impraticabilità di un futuro personale e lavorativo. Così quello che sembrava essere un punto d’arrivo si trasforma istantaneamente nel segno di fine, perché ai ricatti fisici e psicologici il produttore sommava lo stroncamento delle carriere, sottraendo permanentemente quella voce che stava appena iniziando a sbocciare.

Un film necessario

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Maria Schrader e Rebecca Lenkiewicz scelgono un piglio interessante in sceneggiatura: stratificano Anche io di rappresentazioni funzionali al tono del racconto: dal femminile, al maschile, all’esemplificazione della molestia.

Jodi e Megan sono due professioniste, costrette come qualsiasi essere umano a dividere il proprio tempo tra famiglia e lavoro, sacrificando parti e ottimizzando tempi. La normalizzazione del resoconto delle loro vite non riserva insistenza su un abusato stereotipo della ragazza madre/in carriera ma si limita a quello che dovrebbe essere un regolare sviluppo della narrativa quotidiana di una donna, come di un uomo, ma che purtroppo ancora stupisce in veste di esempio positivo.

Accanto alle compagne, due figure maschili assolutamente positive, complici e paritariamente impegnate nella gestione familiare. Di nuovo: non c’è esaltazione, solo ordinarietà.

Tra le indagini convivono frugali momenti in cui la regista adotta un impalpabile inserimento di diverse tipologie di molestie, utili ad allargare il discorso. Il tentativo di mostrare l’innervazione distorta e screditante del femminile è funzionale alla resa emotiva e sistemica di un’opera che vuole mettere in luce cosa significa essere donne in una società che quotidianamente le assoggetta a commenti, sguardi e opinioni violatori e violenti.

Sebbene centralizzata sul reportage del caso Weinstein, è apprezzabile la volontà di mostrare come spesso l’abuso non si misuri solo nell’entità dell’atto, ma anche – e soprattutto – nella somma delle microscopiche offese.

Compassato nel tono e consapevole nelle scelte, Anche io è un film necessario, perché racconta e attualizza, ancora una volta, una realtà di cui il dibattito non potrà mai ritenersi saturo.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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