A 45 anni dalla sua uscita in sala, ritorna al cinema dall’8 giugno Animal House, commedia diretta da John Landis nel 1978. Vero e proprio trampolino di lancio di parecchi attori – uno su tutti, l’indimenticabile John Belushi – Animal House è un indiscusso film di culto, tanto che l’American Film Institute l’ha inserito nella prestigiosa classifica delle dieci commedie migliori di tutti i tempi.
La storia di Animal House
È il 1962. Larry (Tom Hulce) e Kent (Stephen Furst) sono due giovani matricole universitarie dell’università di Faber. Desiderosi di aderire allo snob Club degli Omega, sono però costretti a ripiegare sullo sgangherato Club dei Delta, dove fanno la conoscenza di John “Bluto” Blutarsky (John Belushi), Eric “Otter” Stratton (Tim Matheson) e Donald “Boon” Schoenstein (Peter Riegert). Nemici giurati del Club degli Omega e del perfido rettore Dean Vernon Wormer (John Vernon), i componenti del club dei Delta rischiano ogni giorno l’espulsione per via della pessima condotta, ma questo non impedisce loro di organizzare quotidianamente feste clandestine e scherzi pesanti. Fino, naturalmente, al più incredibile “Toga party” della storia.
La commedia brillante nel contesto di un’America disillusa
Prima del 28 luglio 1978, data in cui fu proiettato nelle sale americane – in Italia arrivò circa dopo un paio di mesi – nessuno avrebbe potuto scommettere sull’incredibile successo di Animal House. Contando su un budget di 3 milioni di dollari, il film di Landis ne incassò più di 141, giustificando felicemente un’operazione produttiva che definire rischiosa sarebbe un eufemismo. Infatti, oltre a restituire una storia tanto spassosa quanto gargantuesca, con parecchie scene particolarmente esplicite e spinte all’eccesso, Animal House era diretto da un semi-esordiente – Landis aveva girato solo due lungometraggi: Slok, passato perlopiù in sordina, e Ridere per ridere – e presentava un cast quasi esclusivamente sconosciuto al grande pubblico.
Nonostante ciò, la commedia fece subito breccia nel pubblico. La trama, semplice e divertente, potrebbe all’apparenza condurre a un banale coming of age, con giovani protagonisti che affrontano certe dinamiche uscendone più maturi. E invece, con un’audacia narrativa per nulla banale, il soggetto curato da Harold Ramis, Douglas Kenney e Chris Miller intercetta benissimo tematiche decisamente impegnative: il crescente disagio dei giovani cresciuti tra gli anni ’50 e ’60, i diritti civili, l’educazione inadeguata fornita dal sistema universitario americano. Il tutto, però, analizzato in chiave parodica e senza alcun freno. Perché gli Stati Uniti, all’indomani della cocente sconfitta in Vietnam, erano ormai pronti a non prendersi più troppo sul serio.
Animal House, universale guerra al sistema
Che il Club degli Omega e il Club dei Delta rispecchino due facce della società americana, la prima ricca e privilegiata, la seconda ribelle e imprevedibile, è un fatto assodato. Il complesso dialogo tra queste due solide realtà avviene in un ecosistema piccolo ma particolarmente esemplificativo: quella Faber University che dovrebbe plasmare le menti delle nuove generazioni, preparandole alla vita adulta. Eppure, in Animal House, il college diventa qualcosa di più universale: il luogo di uno scontro desiderato inconsciamente da una società che ribolliva di novità e incertezze. E le rivoluzioni, al cinema, si fanno non solo con i drammi. Anche la commedia – se non soprattutto la commedia – può condizionare il grande pubblico, invitandolo a farlo riflettere con un sorriso.
Perché Animal House è innanzitutto una commedia che diverte moltissimo, con scene comiche che hanno fatto scuola e frasi super celebri – l’urlo di battaglia “Toga! Toga!” è stato inserito nella lista delle cento migliori citazioni cinematografiche di tutti i tempi. Il merito non è solo della regia vivace di colui che dopo due anni avrebbe diretto Blues Brothers, un altro caposaldo della commedia statunitense, ma anche del folto cast che, come detto in precedenza, conta nomi che di lì a poco sarebbero esplosi. Tra questi quello di John Belushi, il quale, pur non avendo una grossissima parte nel film, regala un’interpretazione comica geniale, strabordante, un vero e proprio assaggio di un talento che avrebbe meritato una carriera ben più lunga.
Infine, un accenno doveroso alla fenomenale colonna sonora, capace di cogliere lo spirito di rivalsa di un’intera generazione. Il sound voluto dallo stesso Landis, un blues velocissimo e avvolgente che anticipa quello ancora più iconico di Blues Brothers, si compone di hit super orecchiabili, perfette per scatenarsi in pista. Le più famose, due inni alla spensieratezza dell’allora astro nascente Sam Cooke: Twistin’ the Night Away e (What a) Wonderful World. Sound fresco, cast esplosivo e regia innovativa sono sicuramente i punti di forza di un classico intramontabile, a distanza di decenni ancora tutto da scoprire.
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