Presentato in anteprima al festival di Cannes 2022, Esterno notte è il ritorno di Marco Bellocchio al caso Moro, uno degli avvenimenti più famosi e controversi della storia italiana. Bellocchio aveva già affrontato il tema con il precedente Buongiorno, notte del 2003, ma in generale è da sempre un regista interessato ai fatti sociali e politici del nostro Paese, un autore che non si è mai sottratto dal prendere posizione netta, fin dal suo film d’esordio I pugni in tasca del 1965, chiaro esempio di cinema civile e impegnato, o dall’episodio del 1971 che lo vede tra i firmatari della lettera aperta all’Espresso sul caso Pinelli contro il commissario Calabresi, insieme ad altri registi, politici, giornalisti e intellettuali italiani.
Esterno notte è solo l’ultimo dei film italiani che puntano lo sguardo sugli anni di piombo, forse il periodo politico e sociale più rovente, interessante e complicato della storia del nostro paese. Tenteremo ora di fornire una ricostruzione di quest’epoca attraverso alcuni dei migliori film che hanno raccontato a vario modo la temperie di quegli anni.
Gli anni di piombo, il film che dà nome al momento più cupo
Gli anni di piombo sono un periodo, databile indicativamente dalla fine degli anni ‘60 all’inizio degli ‘80, segnato sia a livello nazionale che internazionale da tensioni crescenti e da un inasprimento di rapporti tra fazioni politiche contrapposte. La situazione italiana è caratterizzata, oltre che da un’estremizzazione e contrapposizione politica sempre più aspra, dal crescente disagio sociale ed economico delle classi operaie, dalle prese di posizione studentesche, della nascita dei primi movimenti femministi, da numerosi atti di violenza, terrorismo e lotta armata.
Il termine anni di piombo sembra derivare dal film omonimo di Margarethe von Trotta del 1981, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia di quell’anno. Anni di piombo racconta la storia di due sorelle, una, membro di uno dei gruppi terroristici di estrema sinistra più importanti e violenti, viene trovata morta per “suicidio” nel carcere dove era reclusa, l’altra, membro di un giornale femminista, non condivide la scelta estrema della sorella ma, dopo la sua morte, si impegna per scoprire la verità. Il film mostra come la situazione fosse complicata e infuocata a livello internazionale e come il contesto nostrano sia da inserire in un’ottica più ampia.
Romanzo di una strage, Marco Tullio Giordana, 2012
L’inizio degli anni di piombo in genere si fa coincidere con la strage alla Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, la prima delle cosiddette stragi di stato, che segna anche l’inizio del periodo della strategia della tensione segnato da molti altri atti terroristici tra cui la strage di piazza della Loggia e quella del treno Italicus entrambe del 1974, periodo che termina, tragicamente come è iniziato, con la strage di Bologna del 2 agosto 1980.
In Romanzo di una strage Giordana mostra cosa accadde quel 12 dicembre 1969 quando cinque bombe esplosero tra Roma e Milano, tra cui quella della Banca nazionale dell’agricoltura che provocò diversi morti e feriti.
Marco Tullio Giordana è un regista che si è sempre impegnato a raccontare la storia sociale e politica italiana, vogliamo qui solo brevemente citare il suo film d’esordio Maledetti vi amerò del 1980, un’amara presa di coscienza del fallimento della generazione del 1968 che ha rinnegato le ideologie per cui lottava in un contesto, quello italiano, ormai inesorabilmente mutato.
Romanzo di una strage, liberamente ispirato al libro Il segreto di piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli, si concentra soprattutto sulle indagini e sui fatti successivi all’attentato che vedono coinvolti Giuseppe Pinelli, anarchico inizialmente ritenuto colpevole, e Luigi Calabresi, commissario incaricato delle indagini, ucciso poi da membri di Lotta Continua.
Il film cerca di mantenersi neutrale e per certi versi ci riesce, anche se appare evidente che la tesi sostenuta da Giordana sia quella del complotto tra Stato ed estremisti di destra per la bomba della banca e l’innocenza di Calabresi nell’omicidio Pinelli.
Romanzo di una strage si trova in un punto a metà strada tra il film d’inchiesta e il romanzo di fantasia, una sorta di ricostruzione storica fedele con inserti d’invenzione che hanno però il merito di assicurare un valore di verità alla storia ricostruita.
Il commissario Calabresi è il vero protagonista della storia, unico personaggio positivo all’interno di forze dell’ordine sempre più corrotte e meschine, allo stesso modo è descritto Pinelli, unico anarchico onesto e culturalmente strutturato, due figure solitarie all’interno di una massa indistinta e violenta dove forze dell’ordine, Ordine Nuovo e Lotta Continua si differenziano solo per il nome. Anche la politica è descritta come succube di giochi di potere e legami non sempre limpidi e anche qui a spiccare è solo una figura, quella di Aldo Moro, allora ministro degli esteri, già interpretato da Fabrizio Gifuni.
Contesto sociale
Gli anni di piombo sono segnati dalle stragi, dall’omicidio di Moro, dalla malavita, dai legami tra stato, servizi segreti ed estremisti, ma tutt’intorno la gente comune scendeva in piazza e protestava per una riforma della scuola, per un futuro migliore, scioperava per un lavoro alienante, chiedeva a gran voce un cambiamento profondo della società, a partire dalla condizione della donna a casa e a lavoro, al diritto a leggi nuove come quella sull’aborto.
Si sono scelti tre film che sicuramente non sono esaustivi dell’intera situazione ma che restituiscono le atmosfere e i sentimenti del tempo e ci aiutano a tracciare una rappresentazione generale in cui contestualizzare le vicende più rappresentative.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Elio Petri, 1970
Elio Petri è stato un regista tra i più rappresentativi del cinema politico italiano degli anni ‘70, autore di film purtroppo ancora amaramente attuali per le tematiche trattate, come i rapporti difficili e impari tra società e potere, il decadimento della politica, la nevrosi dell’uomo contemporaneo.
Vogliamo solo brevemente ricordare il documentario che Petri realizza insieme a Nelo Risi nel 1970: Documenti su Giuseppe Pinelli composto da due parti Giuseppe Pinelli, diretto da Risi, e Ipotesi su Giuseppe Pinelli, diretto da Petri, ideato dal Comitato cineasti contro la repressione dedicato alla ricostruzione della figura di Pinelli (Risi) e alla messa in scena delle tre versioni della sua morte fornite dalla polizia con lo scopo di svelarne le contraddizioni e l’impossibilità (Petri).
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Vincitore del premio Oscar al miglior film straniero nel 1971 e del Grand Prix Speciale della Giuria del Festival di Cannes nel 1970, appartiene alla cosiddetta Trilogia della nevrosi insieme a La classe operaia va in paradiso 1971 e La proprietà non è più un furto 1973.
Petri vuole affrontare la tematica del potere, la smania di possederlo e il delirio di onnipotenza che colpisce chi lo possiede ed è libero di operare senza ripercussioni di sorta. Gian Maria Volontè nella figura del Dottore, capo della sezione omicidi appena promosso al comando dell’ufficio politico della Questura, incarna la superbia, la vanità, la megalomania di un atteggiamento di questo tipo.
L’opera va contestualizzata nel periodo in cui è realizzata, anni in cui gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine erano all’ordine del giorno sullo sfondo di stragi terroristiche e manifestazioni di piazza. L’atto di accusa diretto allo strapotere esercitato dalle forze dell’ordine è del tutto calzante all’interno dell’opera di Petri e appare ancora terribilmente attuale. Il regista ha avuto il coraggio di dichiarare la presenza di idee fasciste all’interno di organi della polizia e di denunciare i legami tra questi e certe forze estremiste di destra, atto che gli costerà critiche e accuse da molti appartenenti alla classe dirigente italiana.
La classe operaia va in paradiso, Elio Petri, 1971
È il secondo film della Trilogia della nevrosi ed è anche uno dei pochi film a farsi carico della tematica operaia, delle rivendicazioni di un lavoro più giusto, umano e meno alienante. Il protagonista è ancora una volta Gian Maria Volontè, operaio modello che vede di buon occhio il lavoro a cottimo così da scatenare le simpatie dei dirigenti e le antipatie dei colleghi.
A seguito di un incidente sul lavoro si avvicina ai contestatori e rivoluzionari perdendo il suo posto in fabbrica, il suo atteggiamento sarà completamente mutato anche quando tornerà alla catena di montaggio.
Il film, premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes del 1972, fu anch’esso molto criticato. Petri, infatti, cercò sempre di restituire la sua personale visione sulla società distanziandosi anche dalle idee ufficiali della sinistra del tempo. Con questo film vuole puntare l’attenzione sulla difficile situazione in cui si viene a trovare l’operaio qualunque, sfruttato dalla fabbrica, desideroso di lavorare per guadagnare, alienato dal suo stesso lavoro, impotente anche di scioperare e aderire alle proteste per il rischio di perdere l’unica fonte di sostentamento.
Le manifestazioni, sembra dire Petri, sono per chi se le può permettere e la condizione dell’uomo qualunque è ancora più complicata e nonostante gli slogan il proletariato, la classe operaia non verrà davvero glorificata o nobilitata.
Lavorare con lentezza, Guido Chiesa, 2004
Il film, sceneggiato da Guido Chiesa insieme al collettivo Wu Ming, è ambientato a Bologna tra il 1976 e il 1977 e ci mostra un contesto periferico in cui echi cittadini di consapevolezza sociale e rivolta arrivano attraverso le frequenze di Radio Alice, una delle più note radio libere italiane.
Il film risulta molto più leggero e scanzonato rispetto ai precedenti di Petri, ma riesce a restituire l’affresco del tempo attraverso gli occhi di due giovani figli di operai che non frequentano l’università ma nemmeno vogliono lavorare in fabbrica.
Ci sono le esperienze di occupazione collettiva, l’intellettualismo dada ricercato dagli universitari per distaccarsi dal mondo desueto dei padri, la libertà sessuale, i primi gruppi femministi, il proletariato tagliato fuori dal mondo del lavoro come da quello studentesco, le varie esperienze artistiche (impossibile per un film ambientato a Bologna non citare il fumettista Andrea Pazienza), l’impegno politico, la disillusione proletaria.
Il punto di svolta del film, come di tutto il periodo raccontato, è l’omicidio di Francesco Lorusso, studente universitario di Lotta Continua, fatto tragico che segna l’inizio del periodo più violento di quegli anni, delle contestazioni e degli attacchi brigatisti. È una sorta di punto di non ritorno in cui l’opposizione tra movimenti extraparlamentari e forze dell’ordine diventa sempre più aspra.
L’omicidio di Aldo Moro
Quando si parla di caso Moro ci si riferisce all’insieme degli avvenimento riguardanti il sequestro e l’uccisione della Democrazia Cristiana. Il 16 marzo 1978, il giorno in cui il nuovo governo Andreotti stava per essere presentato in Parlamento per ottenere la fiducia, l’auto che trasportava Moro venne attaccata, la scorta uccisa e il politico sequestrato.
La prigionia, rivendicata dalle Brigate Rosse, durò 55 giorni in cui i brigatisti chiesero uno scambio di prigionieri mai avvenuto e infine istituirono un processo politico da parte del tribunale del popolo che condannò a morte Moro.
In quei 55 giorni Moro scrisse diverse lettere indirizzate a colleghi di partito, famigliari e anche a Papa Paolo VI, ma la politica italiana adottò la linea della fermezza decidendo di non trattare con i brigatisti per la sua liberazione.
Il politico venne trovato morto nel bagagliaio della Renault 4 rossa il 9 maggio. L’omicidio del presidente Moro costituisce uno spartiacque nella politica italiana del ‘900, con questo fatto terminò la stagione del compromesso storico e le Brigate Rosse persero il loro fascino sul popolo.
Il caso Moro, Giuseppe Ferrara, 1986
Giuseppe Ferrara è stato un altro regista italiano dal marcato impegno civile e la sua filmografia lo dimostra, tra film dedicati alla mafia, uno su Panagulis e questo che si configura come il primo film in assoluto dedicato al sequestro e all’omicidio Moro.
Il caso Moro è un vero e proprio film d’inchiesta, tratto dal libro I giorni dell’ira. Il caso Moro senza censure del 1980 di Robert Katz che collabora alla sceneggiatura. Il film propone la ricostruzione fedele dei fatti che vengono esposti in maniera del tutto neutrale focalizzandosi soprattutto sulla contrapposizione tra Moro e l’intera classe politica (a esclusione del partito socialista di Craxi) che adotta e mantiene per l’intera durata del sequestro la linea della fermezza risultando, anche secondo la ricostruzione di Ferrara, colpevole della morte del politico. Alla sua uscita il film è stato per questo molto criticato da diversi partiti politici, soprattutto DC e PCI.
La figura di Aldo Moro ne esce del tutto incensurata e negli anni, anche grazie a queste ricostruzioni cinematografiche, si è venuta a creare una narrazione che lo vede come l’unico uomo politico pulito in mezzo a tutti gli altri corrotti; è divenuto insomma impossibile muovere una critica a Moro dopo il sequestro e l’omicidio che l’hanno di fatto trasformato in un martire.
Questo è stato in definitiva l’errore di valutazione più grande delle Brigate Rosse, non pensare di poter diventare il nemico prendendo di mira un uomo ammirato e rispettato da più parti. È lo stesso film a mostrare le incertezze e titubanze all’interno del gruppo, non tutti i membri erano infatti d’accordo con la decisione dell’omicidio e si viene quindi a creare un legame del tutto inaspettato tra loro e il sequestrato.
Buon giorno notte, Marco Bellocchio, 2003
Se Il caso moro di Ferrara ci appare come fedele documento di ciò che è stato, Buongiorno, notte di Bellochio si configura da subito come cosa altra. Il film si avvale di una precisa ricostruzione storica, con l’inserto di documenti reali quali programmi radio e televisivi originali della RAI, su cui però si innestano episodi onirici, irreali e stranianti arricchendo il racconto con l’evocazione di emozioni e sentimenti.
Bellocchio si è ispirato al libro del 1998 Il prigioniero della ex brigatista Anna Laura Braghetti, (unica donna del gruppo dei brigatisti implicato nel sequestro) che nel film ricopre il ruolo di protagonista. È attraverso di lei, infatti, che ci vengono esposti gli eventi e sono i suoi sogni che vediamo prendere forma sullo schermo.
L’alternanza di registri adottata da Bellocchio risulta essere vincente ai fini della descrizione dell’evento così come per suscitare il coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Buongiorno, notte riesce, più che Il caso Moro a restituire appieno la situazione generale dell’epoca soffermandosi anche sulla componente emotiva provocata da una vicenda talmente assurda da sembrare irreale.
Dobbiamo solo brevemente citare le altre opere cinematografiche e televisive dedicate al rapimento del presidente della DC: L’anno del terrore (Year of the Gun), di John Frankenheimer del 1991 in cui un giornalista e una fotografa si ritrovano coinvolti nei piani delle Brigate Rosse per l’assassinio di Aldo Moro. Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli del 2003 ambientato venticinque anni dopo la morte di Moro, quando il ritrovamento di un vecchio video in Super 8 che documenta il rapimento di Moro mette in moto le indagini da parte del procuratore capo di Siena, una sua collega e la sua guardia del corpo. Aldo Moro – Il presidente, miniserie per la TV del 2008 diretta da Gianluca Maria Tavarelli, andata in onda in occasione del 30º anniversario dell’uccisione di Moro e Aldo Moro – Il professore di Francesco Miccichè del 2018 che adotta il punto di vista degli studenti di Moro della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma.
Il contorno sociale
Uno dei principali punti di interesse dell’intero caso Moro è rappresentato dai vari coinvolgimenti tra politica, servizi segreti, criminalità organizzata e loggia P2. Troppi gli agenti in campo, troppe le situazioni assurde (una su tutte la seduta spiritica) per poter credere a una semplice, seppur folle, azione privata dei brigatisti. Durante gli anni di piombo, infatti, le varie organizzazioni criminali come Mafia, ‘Ndrangheta e Camorra hanno rafforzato la loro presenza all’interno degli organi di Stato trovando dei complici all’interno di quelle stanze.
Due film ci aiutano, ancora una volta, a capire quanto la situazione di quegli anni fosse complessa e articolata e che nessun avvenimento era isolato ma inserito in un contesto più ampio.
Romanzo criminale
Romanzo criminale racconta la storia della nascita, dell’evoluzione e della caduta della banda della Magliana, organizzazione criminale romana che, grazie ai legami con la malavita, con rappresentati politici, appartenenti alla loggia P2, servizi segreti e Vaticano, riuscì ad accrescere sempre più il suo potere e la sua influenza.
La banda della Magliana fu coinvolta in varie attività delinquenziali come sequestri di persona, traffico di droga, rapine e omicidi; l’organizzazione fu probabilmente implicata in vicende come l’omicidio di Mino Pecorelli, il caso Moro, i depistaggi della strage di Bologna.
Sia il film di Michele Placido del 2005, vincitore di otto David di Donatello e cinque Nastri d’argento nel 2006, che la serie televisiva prodotta da Sky nel 2008 con la regia di Stefano Sollima e la collaborazione come consulente artistico di Michele Placido, sono tratti dal libro omonimo di Giancarlo De Cataldo del 2002.
Il film di Placido risulta non del tutto riuscito nel suo intento riconoscendo forse la difficoltà a concentrare una materia tanto ricca e stratificata in una durata breve come quella cinematografica. Forse anche per questo la serie televisiva appare un prodotto più completo e meglio riuscito. Le due trasposizioni, oltre ad avere entrambe il merito di restituire un affresco generale della situazione dell’epoca, sono accomunate dalla medesima narrazione della vita criminale in modo da suscitare fascinazione e desiderio di immedesimazione da parte del pubblico che si ritrova a mitizzare gli antieroi protagonisti.
I cento passi, Marco Tullio Giordana, 2000
Il film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2000, racconta la storia di Peppino Impastato attivista siciliano che si dedica alla lotta contro Cosa Nostra, da cui verrà tragicamente ucciso a soli trent’anni.
Quello che fa Giordana, qui e negli altri suoi film, è cercare il coinvolgimento dello spettatore, convertire il film d’inchiesta a racconto cinematografico infarcendo la storia di ricorsi tecnici e strategici che fanno presa sull’emotività dello spettatore. Di fronte a prodotti di questo tipo siamo sempre portati a chiederci se si tratti di buon cinema, ma forse, a volte, la domanda passa in secondo piano, quando il film serve a portare a conoscenza storie come quella di Peppino Impastato, passata nel silenzio per la coincidenza della morte dell’attivista lo stesso giorno di quella di Aldo Moro. Il titolo serve metaforicamente a ricordare la vicinanza della mafia, solo a pochi passi di distanza, allora come oggi; I cento passi, come altri film citati in precedenza, appare quindi ancora attuale e il merito di Giordana è quello di decidere di raccontare storie di impegno civile come questa per far si che la memoria non venga dimenticata.
La politica
A chiudere proponiamo due film che, seppur in maniera diversa, gettano uno sguardo e offrono una riflessione sulla politica del tempo, sul partito, la Democrazia Cristiana, che più ha segnato gli anni di piombo rimanendo al vertice politico per quasi trent’anni.
Todo modo, Elio Petri, 1976
Il film prende spunto dall’omonimo libro di Leonardo Sciascia, pubblicato nel 1974. Obbiettivo di Petri è, ancora una volta, denunciare il potere questa volta rappresentato da una parte dalla Democrazia Cristiana, il partito politico più forte in Italia a quel tempo, e dall’altra dalla chiesa, ancora punto di riferimento per molti italiani.
I due poteri, quello terreno e quello spirituale, subiscono una forte critica da parte di Petri: se la chiesa, rappresentata dalla figura di Don Gaetano (Marcello Mastroianni), viene descritta come sempre più compromessa con gli affari terreni e gli interessi del capitale e fin troppo legata al partito da interessi e tornaconti personali, la democrazia cristiana viene contestata in toto.
Petri, però, va oltre, introducendo il personaggio del Presidente (Gian Maria Volontè) ispirato ad Aldo Moro e offrendone un raro ritratto negativo convogliando in lui tutti i mali del partito che rappresenta. Petri con Todo Modo continua la sua contestazione alla società italiana, alla deriva della classe politica, criticando i detentori del potere e denunciandone le corruzioni e gli intrighi.
Il divo, Paolo Sorrentino, 2008
Sorrentino offre uno sguardo a posteriori sul partito politico più influente d’Italia, la Democrazia Cristiana, attraverso la ricostruzione della figura di Giulio Andreotti che del partito è stato uno dei massimi rappresentati.
Il film, ambientato durante la nascita del settimo governo Andreotti fino al processo del 1995, traccia un ritratto ben poco lusinghiero del politico che anzi viene mostrato come principale protagonista e burattinaio dei maggiori avvenimenti politici italiani con ripercussioni pesanti sulla vita sociale del paese.
Detentore dei più grandi segreti di Stato, Andreotti stringe legami con mafiosi, delinquenti e oppositori sempre nel disegno generale di operare il male per il bene. Leitmotiv paranoico del politico è il ricordo di Aldo Moro, Andreotti, infatti, fu uno dei maggiori oppositori alla trattativa con i brigatisti e per questo fu indicato come uno dei colpevoli della morte del presidente, tesi che Il divo sembra avallare.
Attraverso il racconto della vita di Andreotti, Sorrentino muove anch’egli un ragionamento sul potere, sopratutto politico, che rimane un’entità a cui molti aspirano, pochi posseggono e che sempre continuerà a muovere le trame segrete di uno Stato compromesso per sempre.
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