Richard Linklater è quel regista che appare, ti ruba il cuore e non si fa vedere per un po’. Probabilmente non è il migliore dei partner, ma è di certo un grande artista. Sempre lucido, virtuoso ma controllato, accessibile e universale. Un vero manuale di contemporaneità: Animazione (rigorosamente in un rotoscopio d’avanguardia), trame distribuite e dirette negli anni (con Boyhood seguì per 12 anni un attore in un film-vita senza precedenti) e una leggerezza che disarma per la profondità che elargisce. Eravamo tutti così concentrati su Paul Thomas Anderson e gli Oscar, che quando Linklater è entrato nella stanza non ce ne siamo accorti. Sul tavolo Apollo 10 e mezzo, e ora non abbiamo che occhi per questo film. Lo puoi trovare su Netflix da venerdì 1 aprile ed è difficile dire perché sia speciale.
Non l’hai mai visto un film così. Stravagante – unico! – eppure capace di farti sentire a casa. Come essere su un altro pianeta e scoprire una realtà domestica. D’altronde con Apollo 10 e mezzo andiamo sulla luna, anche se è la vita di tutti i giorni a rubarci gli occhi.
Si tratta di una storia senza storia, ossia la riproposizione fedele e assieme sfocata dell’infanzia di Linklater: una lunga stringa di ricordi che si imprimono su schermo con una semplicità che ha pari solo in poesia.
All’ombra di un razzo
Due film in uno. Da un lato le fantasie di un bambino, dall’altra la riproposizione fedele dell’allunaggio. Sono gli anni ’60 e Huston cresce ai piedi di un sogno: la corsa allo spazio. La NASA avvolge la città con speranze e mansioni, equamente distribuiti ai cittadini di ogni età. Il futuro è un oggetto che si tocca con mano, si guarda negli occhi e si vive giorno per giorno. Solo The Twilight Zone poteva fare concorrenza per immaginazione alle diavolerie febbricitanti sognate a Huston all’ombra di un razzo.
Linklater è cresciuto qui, in una delle casette a schiera abitate da famiglie wasp copiaincollate di giardino in giardino. I ricordi del regista popolano lo schermo con un voice over colorito e avvincente, che racconta dettagli e particolarità di un tempo e un luogo che sentiamo vicini. Più che storia, è diapositiva. Non è il nostro passato e nemmeno la nostra famiglia, eppure in questo soggiorno, con gli occhi puntati al proiettore, ci sentiamo accolti, adottati da un passato che si esprime con calore. Ha ragione Glen Powell, che in Apollo 10 e mezzo interpreta uno degli agenti Nasa che nella fantasia del piccolo Linklater decide di arruolare un bambino per la prima missione lunare: “Questo film è una bomba nostalgica di proporzioni epiche”.
“Altri tempi” è la formula-sintesi di Apollo 10 e mezzo. Non proviamo gelosia, ed è qui che Linklater è migliore della malinconia usa e getta di certo cinema furbescamente rivolto a un passato irripetibile. Questa rievocazione celebrativa risuona e non ci priva di nulla. Linklater si ricorda cosa guardava, chi ascoltava, perché disubbidiva. Mette tutto in fila e invita a fare lo stesso, ripensare il proprio passato e fare attenzione a quel piccolo popolo di amenità che abitano il presente. Abbiamo tutti un Apollo 10 e mezzo da colmare di facezie infantili e memorie storiche.
Sono i dettagli a rendere Apollo 10 e mezzo un gioco che non vorremmo abbandonare mai. Con i fratelli e le sorelle si gioca a riconoscere gli hippie, a intuire uno zeitgeist che ogni settimana deflagra in piazze studentesche e musiche inedite, ma anche a essere privi di ogni tempo, appartenenti a un momento senza forma. Da vivere per com’è, ancora meglio se accanto agli eroi della Nasa.
Sentirsi grati ad Apollo 10 e mezzo
Lo scorrere di una vita così specifica da essere universale ci risveglia dal tepore della visione. Usciamo da Apollo 10 e mezzo con un eccezionale senso di gratitudine. La vita come susseguirsi di piccoli dettagli: il cinema di Linklater al grado zero. Cioè privo di schemi, affidato al solo concatenarsi di momenti passati. Oltrepassiamo Boyhood e Before Sunrise per arrivare dove il cinema è solo suggestione e immagine, collana di perle che brillano di luce riflessa (come la luna).
Non ci muoviamo in nessuna direzione, con il solo allunaggio a segnare un punto in una sintassi che rifiuta ogni ortografia. Non ci sono virgole, perché il ricordo non è attesa ma un fluire ininterrotto e sincopato. Un consiglio: se parli inglese togli i sottotitoli e abbandonati alle parole. Non c’è tempo per leggere, vivi il film per come arriva. Se perdi un pezzo poco importa, arriva subito dell’altro. Siamo ai ritmi di un venerdì pomeriggio in una giornata d’estate: hai 10 anni e la Nasa vuole proprio te per il primo allunaggio. Non c’è tempo da perdere.
Obiettivi e mete sono faccende da adulti. La Luna, per il piccolo Linklater, è questione di sogni. Tant’è che si addormenta proprio al momento clou, annoiato forse da una realtà che si limita a calcare la fantasia. “Sai come funziona la memoria, da grande crederà di aver visto tutto”, commenta la madre calando la scure su un film retto da ricordi senza attestato di credibilità, eppure vivi, imbevuti dalla vita per il suo semplice esistere in un anno, in una città, in un momento.
Apollo 10 e mezzo è anche il canto anarchico all’unicità delle congiunzioni infantili: non si è scelto dove e come vivere, si sta e si raccoglie. Di sé, Linklater dice che era un “accanito bugiardo”. In altre parole, già regista. Fedele alla menzogna come Fellini, che non a caso diresse anch’esso un film “mezzo”. Quell’8 1/2 che, a essere completi, è pure un film sul nulla in cui un regista perde tempo dietro un irrealizzato sci-fi movie di cui sbirciamo solo l’impalcatura per una possibile rampa di lancio verso lo spazio.
Il rotoscopio: una tecnica rinnovata per abbracciare lo spettatore
La vita a Huston è impreziosita da decine di programmi televisivi, giochi da tavolo e grandi film macchiati di mistero. La tecnica d’animazione scelta da Linklater ricolora 2001: Odissea nello spazio, ripropone il discorso di Kennedy e accenna alla guerra del Vietnam. C’è tutto, persino quello che non appare.
Il rotoscopio è la scelta perfetta, stranisce per la sua somiglianza e distanza dalla realtà. Forse sogniamo e ricordiamo in rotoscopio, colorando gli spazi mancanti in una danza di CGI e tecnica tradizionale. Così ha lavorato Linklater, portando la tecnica con cui già aveva diretto Waking Life e A Scanner Darkly a nuovi lidi. Ora, le interpretazioni live action (nel cast anche Zachary Levi e Jack Black) diventano animate grazie al rotoscopio, ma inserite in un contesto maggiormente ibridato tra 2d e computer grafica. Il risultato si innesta nella forma-senza forma di Apollo 10 e mezzo, lasciandoci sospesi all’incredulità di oggetti che potrebbero essere reali come disegnati.
Fedeli allo spazio
Apollo 10 e mezzo ha un ordine impossibile. Tutto torna, tutto funziona. Nel suo privarsi di trama, si affida all’archivistica. Crogiolarsi in questo mondo di bambini – in cui gli adulti sono solo gente più alta e strana – è vestire su misura un abito da festa. Diventiamo anche noi fedeli credenti di un culto votato agli astronauti. Il pantheon presieduto da Buzz Aldrin, Neil Amstrong, Michael Collins e altri è il più vero è il più sensato per un bambino di Huston come ci sentiamo un po’ anche noi quando le stelle lasciano il passo ai titoli di coda e realizziamo che Apollo 10 e mezzo è già finito. Un film da vedere al cinema, ma per cui non è male avere il riavvolgi di Netflix.
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