Quando si parla di Medioevo, la prima cosa che viene in mente sono i primi versi dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto: “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/le cortesie” e “l’audaci imprese. Da una storia ambientata in questo periodo storico ci si aspetta, dunque, di trovare cavalieri senza macchia e senza paura, imprese coraggiose e valorose e un amore cortese, casto e puro che nobilita il cavaliere.
Questo, però, non è il caso di uno dei più grandi successi della commedia italiana. Il riferimento è a L’armata Brancaleone, film del 1966 del regista romano Mario Monicelli (1915-2010), vincitore di tre Nastri d’argento e presentato in concorso al 19° Festival di Cannes, che mostra un Medioevo lontano dall’eroismo rappresentato dai poemi epico-cavallereschi piuttosto che dai kolossal hollywoodiani.
Cosa narra L’armata Brancaleone
Agli inizi dell’XI secolo, in particolare negli anni delle crociate, Brancaleone da Norcia (Vittorio Gassman), nobile decaduto, “cavaliere ardito, sanza macchia e sanza palanche” incontra dopo un torneo un gruppo di popolani che decide di seguire per prendere possesso del feudo pugliese di Aurocastro come segnato da una pergamena sottratta a un cavaliere.
Brancaleone, assieme al mercante ebreo Abacuc (Carlo Pisacane), al robusto Pecoro (Folco Lulli), al ragazzino Taccone (Gianluigi Crescenzi) e a Mangoldo (Ugo Fangareggi), intraprenderà, però, una serie di avventure che di cavalleresco e valoroso non hanno nulla, così come le persone che incontreranno sul loro cammino, come Teofilatto dei Leonzi (Gianmaria Volonté), Matelda (Catherine Spaak) oppure il monaco Zenone (Enrico Maria Salerno).
Le fonti de L’armata Brancaleone
L’armata Brancaleone ha origine dalla visione casuale a Cinecittà da parte di Mario Monicelli di alcune scene in fase di montaggio del film Donne e soldati (1954) di Luigi Malerba e Antonio Marchi, mentre per la sceneggiatura Age & Scarpelli (Agenore Incrocci e Furio Scarpelli) si sono ispirati al film di Akira Kurosawa La sfida del samurai (1961) e I cento cavalieri di Vittorio Cottafavi (1964), film che offrono prospettive inedite nei confronti di certe epoche eroiche.
Si nota, inoltre, l’influenza di Giovanni Boccaccio, della tradizione picaresca e cavalleresca di Miguel de Cervantes, Luigi Pulci, François Rabelais e Teofilo Folengo, ma anche Il cavaliere inesistente di Italo Calvino.
Tutte queste fonti d’ispirazione, dunque, stanno alla base della realizzazione de L’armata Brancaleone, che per Mario Monicelli nasce come parodia del Medioevo per mostrare quanto costruita e finta fosse l’immagine di questo periodo storico:
“L’Armata Brancaleone è nata dal desiderio di raccontare cosa accadeva in Italia nell’anno Mille. Il Medioevo era un periodo particolarmente barbaro: in Italia non c’era la civiltà, che in quell’epoca apparteneva solo all’Islam. E allora avevamo voglia di raccontare questo Medioevo alternativo a quello epico che ci propongono i romanzi cavallereschi di Chrétien de Troyes. Che fosse quindi una parodia, ma allo stesso tempo, una contrapposizione a quest’immagine finta di un’epoca eroica e favolosa che si vede nei kolossal hollywoodiani”. [1]
Il Medioevo ritratto da Mario Monicelli, infatti, è molto lontano da quello che si studia a scuola, pieno di imprese nobili e valorose. È il Medioevo degli sconfitti, dei miserabili, di persone cialtrone e piene di vizi e peccati che tanto ricordano l’italiano medio e la sua arte dell’arrangiarsi.
Il Medioevo dell’armata Brancaleone, però, nonostante la comicità, sa essere anche molto cruento, come mostrato nella scena iniziale dell’invasione, piena di sangue e violenza, come emerge dalla mano mozzata dell’invasore oppure da uno dei saccheggiatori che mangia un pulcino vivo.
La scena dell’invasione, inoltre, mette in luce l’asincronismo a cui solitamente è soggetto il Medioevo come periodo storico. Le invasioni barbariche, infatti, risalgono all’Alto Medioevo, lontano, dunque, dal periodo delle crociate, collocate, invece, nel Basso Medioevo. Un altro dettaglio di questa scena introduttiva che evidenzia l’asincronismo è la presenza di tacchini nel pollaio, quando è risaputo che il volatile giunge in Europa con la scoperta dell’America nel 1492.
Un altro aspetto interessante, invece, riguarda i Bizantini, da cui discende Teofilatto dei Leonzi, che si ritirarono dall’Italia nel 1071, quando la prima crociata ebbe luogo nel 1096. Questi dettagli, dunque, nascondono un intento di riflessione critica da parte di Monicelli rispetto alla concezione del Medioevo dei kolossal hollywoodiani, ad esempio, poiché risulta evidente come, nel rappresentare una versione mitizzata del Medioevo, spesso la ricostruzione storica viene trascurata.
Un aspetto interessante è quello della lingua de l’armata Brancaleone. A questo proposito, Mario Monicelli affermò quanto segue:
“Quella lingua non l’abbiamo creata, ma desunta, rubacchiata, soprattutto da Jacopone da Todi, San Francesco e Gregorio Magno. Andavamo a pescare in molti testi medievali. E poi molto dai dialetti, di cui eravamo grandi cultori e intenditori. Pescavamo modi di dire, vocaboli dialettali, specialmente dal sud, e qualche volta, ce li siamo inventati. La verità è che il ritmo e la costruzione li prendevamo soprattutto dai testi di Jacopone da Todi e in parte anche dal Cantico delle creature, che noi dileggiavamo nel modo di parlare. Ci si divertiva a scherzare sul linguaggio – “frate sole, sora luna” – in modo goliardico”. [2]
La parlata immaginaria dei personaggi è un misto tra latino maccheronico e scolastico, lingua volgare medievale e dialetto della Tuscia (il film è girato prevalentemente in centro Italia, tra l’alto Lazio e la Maremma laziale). Questa lingua inventata, che incontrò l’iniziale scetticismo del produttore del film Mario Cecchi Gori, sarà destinata a conquistare il pubblico italiano e a entrare a far parte della nostra quotidianità con parole ed espressioni come “non li prestate bada”, “et come non”, “poco tengo, poco dongo”, “sanza”, “fide et speranza”, “a te che te ne cale?”, “mai coverto” oppure “alla lesta”.
L’armata Brancaleone location medievali (secondo Monicelli)
La lingua immaginaria inventata da Mario Monicelli assieme agli sceneggiatori Age & Scarpelli rispecchia sicuramente un Medioevo fatto di gente scapestrata, cialtrona, che di cavalleresco non ha nulla, e rende ancora più evidente l’intento parodico de L’armata Brancaleone.
Si pensi, per esempio, alla religione, raffigurata dal monaco Zenone. Quest’ultimo, ispirato alla figura di Pietro d’Amiens o Pietro l’Eremita, guida della cosiddetta “crociata dei pezzenti”, è ritratto in maniera comica con la sua voce in falsetto, e dai suoi proseliti che lo seguono sulla via per la Terra Santa perché malati di gotta, di lebbra oppure perché hanno perso un braccio a seguito di un adulterio colto in flagrante, quasi come fosse un pellegrinaggio verso Lourdes ante litteram al seguito di un santone che promette la guarigione e la soluzione a ogni male.
Il trattamento della religione – retaggio dell’ateismo di Mario Monicelli – assume tratti più farseschi in scene in cui Pecoro e lo stesso Zenone cadono da un pontile, che crolla non perché “Dio ha levato la mano” o per la presenza di un eretico – Abacuc, poiché di religione ebraica -, ma per il semplice fatto che il pontile non riusciva a reggere il peso dei due. Dopotutto, come dice lo stesso Zenone riprendendo il motto di Pietro d’Amiens, sono caduti poiché “Deus vult! Dio lo vuole!”.
Parlando di personaggi farseschi, gli aiutanti di Brancaleone da Norcia non sono i tipici aiutanti valorosi della tradizione epico-cavalleresca. Lo dimostra, infatti, la scena del salvataggio di Matelda, al termine della quale Brancaleone rimprovera i suoi compagni di (dis)avventure per non essere intervenuti ad aiutarlo a combattere i nemici: “Oh, gioveni! Quando vi dico ‘sequitemi miei pugnaci’, dovete sequire et pugnare! Poche fotte! Se no qui stemo a prenderci per le natiche!”.
È evidente, però, che in quel manipolo di improvvisati ognuno segue i propri interessi, come Abacuc, al quale interessano solo i soldi della ricompensa di Matelda, contrattando con il suo tutore la somma in denaro mentre questi è in punto di morte.
Non solo Abacuc, ma anche Teofilatto dei Leonzi non è l’aiutante – anzi, il Lancillotto, in questo caso – che tutti si aspetterebbero di vedere in un film sul Medioevo. Questi, infatti, è un personaggio privo di nobiltà e di virtù cavalleresche, poiché non solo infrange la promessa di Brancaleone di mantenere intatta la purezza di Matelda, ma allo stesso tempo si finge ostaggio di Brancaleone per estorcere il denaro del riscatto alla sua famiglia.
Quando, infatti, giunge alla sua dimora assieme a Brancaleone e i suoi uomini, Teofilatto viene persino rinnegato da suo padre, che invece di pagare il riscatto ad Abacuc lo invita a prenderlo a bastonate a suo piacimento, poiché egli è “vergogna del nome nostro, pecora nera! Ladro e fannullone! Isso è figlio bastardo che io ebbi controvoglia da una serba della gleba! Né un soldo d’oro, né di stagno, questo è lo suo prezzo!”.
L’ironia di Mario Monicelli nel dirigere L’armata Brancaleone non risparmia nemmeno la figura femminile più importante di tutte, ovvero Matelda. A differenza del personaggio di Ginevra del ciclo arturiano, Matelda non ci pensa due volte a perdere la verginità prima di arrivare al castello di Guccione (Joaquín Díaz), invitando il protagonista a fare l’amore con il gioco di parole “Brancami, leone”.
Persino la clausura alla quale si autocondanna la giovane risulta parodica, poiché votarsi a un altro sposo, cioè a Dio, non sembra essere un segno di pentimento per ciò che Matelda ha fatto verso Brancaleone, bensì un segno della libidine della giovane che non ha fine.
Brancaleone da Norcia, “cavaliere ardito, sanza macchie e sanza palanche”
In un Medioevo pieno di personaggi cialtroni e di dubbia moralità, nemmeno Brancaleone da Norcia, il cavaliere protagonista de L’armata Brancaleone può essere considerato l’eroe positivo della storia. Egli, infatti, è l’antitesi del tipico cavaliere eroico della tradizione cortese: è un nobile diseredato, la sua retorica cavalleresca stona con la sua goffaggine, non ha un’armatura, e il suo cavallo Aquilante – che Mario Monicelli ha dichiarato essere ispirato al cavallo di Sancho Panza con il suo colore giallognolo e una “retina miserabile” addosso [3] – è recalcitrante a seguire gli ordini del suo proprietario, come dimostra la scena del torneo tra cavalieri, dove Brancaleone non riesce ad affrontare il suo avversario poiché il cavallo corre alla cieca attorno all’arena.
Un’altra scena divertente che riguarda Brancaleone è quella del duello con Teofilatto dei Leonzi, dove i due si sfidano con ogni tipo di arma senza risultare vincitori, ma arrivando soltanto ad abbattere un albero a colpi d’ascia e a falciare un intero campo di grano a colpi di spada. I due interromperanno il duello, che di eroico non ha assolutamente nulla, non perché uno dei due è ferito, ma semplicemente per stanchezza o perché, nel caso di Brancaleone, gli fa male la milza.
A differenza degli altri cavalieri, Brancaleone non ha il minimo senso dell’orientamento. Arrivati alla città, che poi si rivelerà esser stata decimata dalla peste, Brancaleone afferma che si tratta di “San Cimone, Bagnarolo, anco Panzanatico, o altro loco che io non saprei”. La mancanza di senso d’orientamento di Brancaleone lo porta persino a fidarsi del suo cavallo Aquilante nel momento in cui scappa assieme al suo seguito dopo aver scoperto dalla vedova (Maria Grazia Buccella) la presenza della peste.
L’incontro tra Brancaleone e quest’ultima risulta interessante nella sua comicità, poiché appena Brancaleone scopre che il marito della donna è morto per la peste, questi scappa dalla paura per “lo gran morbo”, dimostrando di non essere il tipico cavaliere senza macchia e senza paura.
Anche la storia delle origini di Brancaleone, simile grossomodo a quella di Edipo piuttosto che di Amleto, è raccontata a Matelda con un preciso intento parodico. Brancaleone è stato allontanato dalla sua famiglia alla morte del padre e a seguito del secondo matrimonio della madre. Dopo aver trascorso gran parte della sua gioventù in un bosco, dov’era stato abbandonato da colui che doveva assassinarlo, Brancaleone torna al suo castello per reclamare l’eredità a seguito della morte della madre e del patrigno per aver dilapidato il patrimonio, ma sarà costretto di nuovo a scappare, poiché ha ferito delle guardie per non pagare i debiti lasciati dalla sua famiglia.
Brancaleone da Norcia può anche essere considerato una versione parodiata fino all’estremo di Orlando dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Questo parallelismo è evidente nel rapporto con Matelda. La scena in cui Brancaleone si reca nel convento in cui Matelda si è chiusa per espiare il torto recato al protagonista fa venire in mente una versione parodica della follia di Orlando, poiché il protagonista irrompe nel convento uccidendo tutte le persone sul suo cammino. La rabbia di Brancaleone, però, culmina in maniera ironica quando, nel momento di decapitare la giovane, la lama della sua spada cade e si separa dall’elsa.
Il culmine delle vicende farsesche di Brancaleone è da trovarsi nell’arrivo ad Aurocastro. L’arrivo di Brancaleone e dei suoi uomini viene accolto in maniera entusiasta da parte degli abitanti della rocca, che li lasciano soli a fronteggiare l’invasione dei Saraceni, lasciandogli, tuttavia, le scorte del vino e dei viveri per ringraziarli. L’invasione dei Saraceni, però, finirà in maniera maldestra, poiché Brancaleone e i suoi uomini finiscono vittime della trappola da loro stessi architettata.
L’armata Brancaleone film nella storia
L’armata Brancaleone di Mario Monicelli è un capolavoro della comicità italiana. Non solo per battute e modi di dire che sono entrati nella nostra quotidianità e per le scene farsesche che suscitano risate a crepapelle, ma perché Monicelli ha saputo usare l’ironia nel senso pirandelliano del termine suscitando il sentimento del contrario negli spettatori.
L’ironia di Mario Monicelli è volto alla decostruzione del Medioevo, soggetto sempre a un revisionismo che spesso nasconde la barbarie e l’ignoranza che ha contraddistinto sotto certi aspetti questo vasto periodo storico, e dell’eroismo rappresentato dai media e dai film kolossal hollywoodiani. L’armata brancaleone, dunque, ha fatto scuola per le riflessioni profonde a livello culturale e cinematografico che ha saputo suscitare con l’ironia.
«Lione al vento, stiam marciando
Noi siamo l’armata Brancaleon
Leon, leon, leon
Leon, leon
Branca, Brancaleon!
Branca, branca, branca
Leon, leon, leon!»
(Marcia dei titoli di testa e di coda, musica e testo di Carlo Rustichelli)
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