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Aru Otoko – A Man, il trauma come costruzione identitaria

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8 minuti di lettura

In concorso nella sezione Orizzonti nella 79esima edizione del Festival del cinema di Venezia Aru Otoko, il quarto lungometraggio del regista giapponese Kei Ishikawa. Tratto dal successo letterario A Man di Keiichiro Hirano e vincitore del prestigioso Premio giapponese Yomiuri, il nuovo film di Ishikawa riflette sull’importanza delle trame dell’essere come forma di superamento del trauma.

La costruzione dell’identità come diversivo del trauma

Un uomo non è solo un uomo, è la composizione astratta e indisciplinata di tanti piccoli tasselli capaci di cambiare l’essenza dell’essere. Ed è proprio su questa indagine psicanalitica che prosegue il lavoro di Ishikawa, già iniziato con Gukoroku, presentato alla 73esima edizione del festival del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti.

Il film rivelazione, acclamato dalla critica nel 2016, era soltanto il punto di partenza di un autore che pur essendo al suo primo lungometraggio lasciava intravedere la capacità del regista di riuscire trasporre in immagini anche testi molto densi. Aru Otoko – A Man, è un racconto sulle difficoltà che si affrontano durante l’elaborazione del lutto e degli sforzi necessari per la costruzione di una nuova identità che sia capace di scagionare dal trauma.

Aru Otoko

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Rié Takemoto (Sakura Andô) è una giovane donna e madre divorziata, lasciata completamente andare alla vita, al flusso del dolore che si è impossessato di lei sottraendole un figlio di pochi anni.

Un pianto sordo e rispettoso come una nube pallida circonda l’umile cartolibreria in cui lavora e nemmeno le tinture ed i colori di cui è circondata sembrano capaci di ritinteggiare uno spirito totalmente svilito. Fino a quando, in una giornata di pioggia purificatrice, entra nella piccola bottega un giovane uomo timido e introverso appassionato di pittura di nome Daisuke Taniguchi (Masataka Kubota).

Dopo una serie di brevi incontri, sguardi impacciati e sorrisi rubati, i due giovani curano a vicenda le loro ferite iniziando una nuova vita insieme. Ma un giorno, a causa di un tragico evento, l’uomo perde la vita, portando via con sé anche tutte le certezze che la dolce Rié aveva di lui e solo l’indagine dell’avvocato Kei Ishikawa sarà in grado di ridare un nome all’uomo che per anni ha finto un’altra identità.

Risanare l’anima con l’identificazione negli altri

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Con compostezza e geometria, è così che Aru Otoku si apre al suo pubblico: linee, cornici e specchi che cercano di sconfinare l’una nell’altra per restituire un osmosi necessaria a definire la stratificazione delle cose. Il quadro nel quadro, e un uomo dentro ciascuno di essi, una sola immagine e tante dimensioni per realizzarla, perché in fondo è di questo che siamo fatti, stratificazioni di vissuto, emozioni e traumi che si compattano per definire la nostra identità.

Ma cosa succede se al quadro togli la cornice? Si compromette la validità dell’opera? Potremmo forse perderne il senso solo perché non è più contenuta nelle linee che ne disciplinano l’identificazione? Tutto deve avere un nome, ciascuna emozione, oggetto e persona deve essere reperibile e catalogabile, identificabile. Ed è questo di cui sembra aver bisogno la vedova Rié, che un anno dopo la morte di Daisuke, scopre che a questo nome corrisponde il volto di un uomo scomparso da anni.

Questo bisogno smanioso di scoprire la vera identità sull’uomo X si estende anche all’avvocato ingaggiato da Rié, il quale, con il ritrovamento di tutti i frammenti del passato dell’uomo, inizia a mettere in discussione anche il proprio senso dell’identificazione.

All’origine di questo scambio d’identità, il bisogno pressante di dimenticare un passato morboso e violento, fatto di sangue e omicidi compiuti davanti agli occhi di un bambino, quelli di Daisuke. Un percorso arduo e straziante portato avanti da un ragazzo che dovrà cercare di risanare un’identità per sempre compromessa a causa degli errori di un padre omicida. Aru Otoko – A Man è un film sulla ricerca identitaria tra i labirinti della mente di tutti coloro che hanno bisogno di rintracciare il passato di un uomo che ha volontariamente scelto di reprimere come poteva.

L’indagine postuma sulla vera identità del marito defunto di Rié, finisce dunque per coinvolgere tutti in un turbinio di misteri senza alcuna via d’uscita, tutti sono chiamati ad interrogarsi a loro volta sulla propria condizione identitaria.

Creare il mood giusto in un film poco convincente

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In Aru Otoko a mancare è forse un rigore più certosino nei confronti di una narrazione poco centrata e abbastanza incerta, che scivola da un registro all’altro senza imporsi. Gli elementi necessari a supportare un cambio di genere in corso d’opera risultano fragili e tremolanti. Ad esempio, di Daisuke, ci viene dato ben poco, almeno nella prima sezione del film, la percezione che abbiamo è che la narrazione si sia spostata, in maniera quasi maleducata, da un protagonista all’altro.

Le prime battute di Aru Otoko – A men seguivano infatti le vicende di una donna sola e in lutto con un palese bisogno di ritrovare un equilibrio, questa trama principale viene poi completamente serrata per dare vita a un altra trama centrale slegata dall’approccio narrativo iniziale.

La prima parte di Aru Otoko – A man lascia immaginare che si tratti di un’opera legata alla cornice dello psicodramma, per poi rinfrancarsi, ma non del tutto, da questo schema. Quella che prende vita è una storia di indagine che mira a dissezionare evento per evento, trauma per trauma tutte le particelle che compongono la vera identità dell’uomo X.

Se le pause e i lunghi silenzi delle prime scene ci avevano fatto godere di quel fascino discreto ed elegante della voce interiore dello stile giapponese, le lunghe sequenze sature di dialoghi inesauribili mettono in dubbio l’effettiva sapienza dell’uso dei tempi di Kei Ishikawa. Aru Otoko – A Man pur centrando il mood perfetto di tutti i generi che inserisce nella cornice rappresentativa, finisce però per perdersi nelle maglie di un thriller ingiustificato.

Uno scivolamento continuo che si consuma minuto per minuto perdendo l’aderenza da tutti gli specchi su cui cerca di costruire un film impegnato a partire da una trama spoglia e davvero troppo scontata.


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