Siamo spacciati.
Il mondo sta finendo, fra guerre, pandemie, catastrofi naturali e la generale infelicità delle persone. Dio è morto, il cielo ospita solo astri e freddo vuoto cosmico. L’umanità pare addormentata, in un catatonico stato di insofferenza ed apatia: incapaci di comunicare fra loro, gli uomini si sono lentamente rifugiati in mondi di finzione, incapaci di affrontare il caos della vita reale. “Se volevate vivere una vita pacifica, avete scelto il tempo sbagliato.”
Queste le parole pronunciate da un autoritario generale dell’aviazione statunitense, in Asteroid City, ultimo film di Wes Anderson nelle sale italiane dal 28 settembre. Come molte delle opere precedenti del regista, Asteroid City è un ricco ecosistema di matrioske narrative: un programma televisivo condotto da Bryan Cranston racconta della messinscena di una commedia per il palco, recitata poi nella sua interezza per noi spettatori; l’azione, come spiegato nei primi minuti dal suo sceneggiatore Conrad Earp (Edward Norton), si svolge nel 1955 nella titolare cittadina, circondata dal deserto: protagonisti sono diversi nuclei famigliari, riuniti da un convegno di cadetti spaziali e astronomi venuti da tutta l’America, inconsapevoli di star per assistere ad un incontro ravvicinato del terzo tipo.
Asteroid City, mecca di alieni terrestri
Fra le famiglie di Asteroid City, due spiccano per importanza narrativa: la prima, composta da un fotografo di guerra (Jason Schwartzman), suo figlio adolescente e le sue tre figlie piccole, si rifugia nel deserto per cercare di fare i conti con la recente dipartita della madre dei ragazzi, che il padre non ha ancora saputo comunicare loro. La seconda invece, vede Scarlett Johansson nei panni di un’attrice tormentata, sentimentalmente arida se lontana dai riflettori, e la sua impacciata figlia, una giovane ragazza che sarà premiata insieme agli adolescenti delle altre famiglie per i loro “fantascientifici” progetti in ambito astronomico.
Entrambi questi nuclei di affetti, incapaci di comunicare internamente, troveranno l’uno nell’altro un’immagine specchiata con la quale aprirsi: l’attrice ed il fotografo, lei “star” delle sue fotografie e i due giovani figli, reciproche stelle dei loro rispettivi cieli notturni. Persone tristi, fragili, ferite dalla vita ed incapaci di andare avanti -il padre stesso parlando della propria defunta madre, sottolinea come il tempo non curi tutte le ferite-, persone che, citando la figlia dell’attrice “preferirebbero vivere lontano dalla Terra.”
Di fatto, tutto il cinema di Wes Anderson si occupa di “piccoli alieni” emarginati che non riescono a sentirsi a casa in alcun luogo: dai tempi dei ladri ingenui di “Un Colpo da Dilettanti” (1996), passando poi per i solitari piccoli eroi di “Moonrise Kingdom” (2012), fino al recentissimo “La Meravigliosa Storia di Henry Sugar” (2023), Anderson racconta della malinconia come costante esistenziale, della estenuante lotta di chi fatica ad esprimere i propri sentimenti in termini chiari.
Con The French Dispatch (2021) questa graffiante solitudine sembrava essere divenuta insormontabile per il regista: non c’era salvezza per il carcerato (Benicio del Toro), prigioniero nella sua stessa mente, né per la reporter (Frances McDormand) mai amata da alcun uomo, né tantomeno per lo chef (Stephen Park) e per il giornalista (Jeffrey Wright), entrambi discriminati per il colore della loro pelle. Asteroid City va a concludere il percorso iniziato da Anderson proprio in The French Dispatch, il suo film più cinico, seguito poi dal suo film più ottimista.
Eppure, neanche a farlo apposta, il film comincia con un test nucleare, solo il primo di una serie di rimandi iconografici all’America anni ’50 sulla quale Anderson ricama nuovi significati e simboli reinventati: divi di Hollywood, cowboys, pop art, i diner, i banditi inseguiti dalla polizia, i fondali volutamente posticci di un’America che sia nella realtà che nella finzione stava venendo costruita sulla plastica, diventano riflessi visivi del malessere dei protagonisti che vivono sì negli anni cinquanta, ma ai quali Wes attribuisce caratteristiche del nostro mondo post-moderno, post-ideologico, post-speranza.
“Non puoi svegliarti se non ti addormenti”
Questi personaggi in cerca d’un senso, oltre a misurarsi con le proprie tragedie umane, devono confrontarsi anche con le grandi tragedie storiche: il consumismo americano, la globale Spada di Damocle che è la bomba nucleare, le paranoie da Guerra Fredda di una nazione intera e in più uno sceneggiatore che, internamente al film, non riesce a capire quale sia il significato di ciò che lui stesso sta mettendo in scena. Qual è il senso della vita? Perché scrivere una commedia sulla fine del mondo se il mondo sta finendo per davvero? Perché andare avanti?
Ed è qui, che Asteroid City sceglie di resettarsi. L’attore protagonista decide di abbandonare il palco nel mezzo della sua performance per chiedere spiegazioni al regista ed allo scrittore: perché? Perché il suo personaggio si brucia una mano sulla piastra di sua volontà? Perché ad un tratto un vero e proprio alieno atterra ad Asteroid City? Cercando risposte alle sue stesse domande, l’autore interpella gli altri interpreti -o forse i loro ruoli- che rispondono in coro: “non puoi svegliarti se non ti addormenti.“
Semplicemente tradotto: “non puoi rialzarti, se prima non cadi.” Tutti questi spaesati “marziani,” attori, artisti e personaggi stessi che hanno toccato il fondo, non possono far nulla oltre accettare che non troveranno certezze né al centro dell’universo che osservano coi loro telescopi, né nelle pagine/immagini che il loro creatore ha scritto/girato per loro. Tutto è caos. La vita stessa è incontrollabile e noi possiamo solo andare avanti con le persone che ci donano affetto. I protagonisti di Asteroid City lo imparano stando insieme, accettando l’entropia che li circonda e più di tutto confrontandosi con l’alieno.
Non più le famose formiche giganti di Assalto alla Terra (1954), americana metafora di un’invasione sovietica, bensì un’innocuo omuncolo (interpretato da Jeff Goldblum) che semplicemente atterra, preleva il sasso per cui è venuto, posa per una foto e se ne torna nel suo spazio profondo. Lui, questo misterioso essere, non ha nulla nei movimenti e nella mimica facciale che gli stralunati protagonisti del cinema di Anderson non abbiano, è virtualmente identico, eppure pacifico e sereno.
Questo è il cuore del film: il cambiamento, il maturare delle persone può avvenire solo confrontandosi con il diverso. Gli “alieni”, i pensatori liberi, gli strani, sono il futuro dell’umanità, saranno miccia di una rinascita e l’extraterrestre di Asteroid City ne è la prova. “Non mi piace come ci guardava l’alieno. Come se fossimo spacciati” confessa Schwartzman a Johansson. “Forse lo siamo” risponde lei. Ma nonostante questo, entrambi vanno per la propria strada, rincuorati di sapere che non siamo soli nell’universo e che la nostra estinzione non sarebbe la fine di tutto. Finirebbe il film, ma non la vita.
E se gli interni di Grand Budapest Hotel (2014) silenziosamente ammiccavano allo sfarzoso hotel di Amarcord (1973), il finale di Asteroid City è un timido ma efficace omaggio a quello di 8½ (1963) non nella forma, ma nel senso: invece di un regista e del suo film incompiuto, qui abbiamo la chiusura di un sipario ed il ritorno alla realtà, nonostante i test nucleari, nonostante le guerre, nonostante i traumi che ci accompagnano ogni giorno.
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