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Lungo la Via dell’Acqua il cinema è ancora uno spettacolo incredibile

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12 minuti di lettura

Il cinema di Cameron siede negli abissi. Oscuri, profondi; grembi inospitali. Dove riposa il Titanic, dove pulsa The Abyss. Il regista di Aliens ne è certo, la caverna di Platone è scomparsa con Atlantide. Il regista-speleologo, dall’oblò di uno scafandro d’oro, sfida la rifrazione dell’acqua alla ricerca di ombre sempre più nitide. La via dell’acqua porta qui. Alla limpidezza vibrante di un film che è grandiosa conquista. I suoi dodici anni di produzione Avatar 2 li mostra tutti. Sono l’orgoglio di un percorso impossibile. Ieri, il sogno di una CGI capace di pulsare con l’anima degli attori, raggiunto con il primo film e di rado replicato negli anni a venire. Oggi, il ritorno ad abissi finalmente esplosi di luce. Il cinema in profondità torna alle origini. Agli occhi sbarrati per la meraviglia. La migliore recensione di Avatar: La Via dell’Acqua la scrive per noi il bambino che ci siede accanto in sala: tre ore e dieci di tentativi di farsi tutt’uno con lo schermo.

Possiamo parlare di trama e dettagli, di personaggi, errori e retcon. Persino di leggerezze e sbavature. Ma come, in un film così studiato? Sì. E a chi importa. Il prezzo del biglietto non è mai discusso. Siamo ricompensati di un’attesa che avevamo sottovalutato. Quella conquista gloriosa ci appartiene almeno un po’. Non è solo bello, è vero. Perché mai come in Avatar: La Via dell’Acqua ci siamo trovati a dimenticare la CGI. Che è ovunque, ma scompare. Ed è quasi un peccato! Perché a crederci troppo ci si dimentica che è puro e splendido artificio, da celebrare in quanto tale. Di film così, nell’epoca del digitale e della computer grafica, ne arrivano pochi. Spettacoli veri dedicati al grande schermo. Aiuta il 3D, il migliore mai sperimentato nella lunga tradizione della tecnica più amata da Cameron, di cui si rivela – per una seconda volta – unico vero maestro. Regali allo spettatore trascinato nelle brillanti profondità di Pandora per il solo piacere del viaggio.

Bentornati a Pandora

Avatar: La Via dell'acqua NPC Magazine

The way of water has no beginning and no end.
Our hearts beat in the womb of the world.
Water connects all things, life to death, darkness to light.
The sea gives and the sea takes

La trama di Avatar: La Via dell’Acqua in una frase: “la gente del cielo che torna”. Jake Sully (Sam Worthington), ora padre di famiglia e protettore del clan Omaticaya, deve fuggire. Prende per mano Neytiri (Zoe Saldana) e le fa una promessa. Insieme per sempre. Avatar: La Via dell’Acqua dedica i primi minuti a riassumere le vicende precedenti. Poi accelera d’improvviso. Con la scusa dei videolog, i filmati che gli umani registrano durante le missioni sul pianeta alieno, Cameron riscrive alcuni eventi e non si stanca mai di ricordarne altri. Fino a qui c’è un confine preciso. Lo schermo, il racconto e lo spettatore. Poi ci immergiamo e a quaranta minuti dall’inizio l’acqua si adatta alla sala e ci cinge. A fine proiezione, camminiamo come nuotando. La scommessa di James Cameron è vinta. Anni per sviluppare le tecnologie utili a portare la motion capture sott’acqua restituiscono un realismo senza precedenti.

L’interesse di Cameron è invariato. Siamo ancora spettatori di una grande metafora ambientalista che punta il dito contro ogni colonizzazione e sfruttamento. Il mondo di Avatar è talmente chiaro che i Na’vi cavalcano decisi contro un vagone rifornimento: sono indiani nella più classica delle scene.

L’essenzialità è un pregio. Non distrae dall’immagine e non imbroglia con intricati sistemi narrativi. Raccontare Avatar a parole suona ridicolo per banalità di vicende. I cattivi sono cattivi, i buoni sono buoni. Un po’ meno del primo film, ma resta il concetto. In dieci anni di Marvel, Inception e universi collettivi siamo assuefatti dalla necessità di mappe che ci guidino nel racconto, districandosi in intrecci estesi. Avatar senza lo schermo è nulla. E non c’è pregio più grande se si parla di cinema.

La danza delle balene, la gioia dello spettatore

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Tre ore di immersione chiedono impegno. Con grande stupore, non manca quasi mai l’ossigeno. Cameron piega la trama, cerca sempre una ragione per sfuggirle. Venti minuti a inseguire una balena aliena. Poi eccone dieci di sole creature che danzano sul filo dell’acqua. Si compiace, abbiamo sempre qualcosa da ammirare.

Al contempo, fioccano personaggi. La famiglia di Jake è numerosa e in ogni figlio c’è una storia. Alcune solo accennate, in attesa che la saga prosegui per altri tre film. I grandi protagonisti del primo capitolo tornano tutti, anche il famigerato Colonnello Quaritch (Stephen Lang). Ma mentre i cattivi sono ancora in prima linea, i nostri eroi fanno un passo indietro. Tempo della prole, la cui educazione al mondo acquatico trasforma lo spazio in linguaggio.

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Pandora è un insieme armonioso e coerente. L’arte di Cameron è in quest’attenzione maniacale, che racconta il suo mondo immaginario meglio di molti dialoghi. La volta celeste con migliaia di puntini luminosi ritorna sulla pelle traslucida dei Na’vi, passando attraverso i dettagli di una balena che danza per comunicare. Lo schermo si fa d’oro al movimento di piante subacquee, che sono trasposizione della biologia aliena già incontrata nella foresta e ora immersa nelle profondità.

Il primo fiato sospeso arriva con la pioggia. La via dell’acqua inizia dal cielo. Scende violenta, intensifica il racconto. Le labbra bagnate, i capelli ora attaccati ai volti Na’vi; il ritrattismo di Cameron è secondario solo alla volontà di respirare con paesaggi ampi e ariosi. Avatar: La Via dell’Acqua è questo. E lo è con una veemenza che pretende rispetto.

La famiglia Sully contro tutti

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Nella scrittura dei rapporti umani, Cameron e la coppia di sceneggiatori – Rick Jaffa e Amanda Silver -sono altalenanti. È nella regia, nei movimenti degli attori e nei piccoli gesti ripetuti che la sceneggiatura visiva di Avatar: La Via dell’Acqua riesce invece a commuovere.

Jake è un padre apprensivo, militare tormentato da una guerra che non dà tregua. Dopo ogni azione concitata controlla i figli in cerca di ferite. Li gira come un animale coi cuccioli. Le mani grandi, il cui dito in più tradisce la provenienza umana, setacciano ogni angolo della pelle. Poi li sgrida. “Sì signore”, risponde il plotone-famiglia.

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Più assente è Neytiri. Ci manca il personaggio, ma soprattuto Zoe Saldana. Lei che più di chiunque in questa storia frantuma le barriere della motion capture e si consegna allo spettatore in forma di Na’vi.

La famiglia Sully è quanto mai tradizionale, troppo umana. Il cognome di lui, assunto da Neytiri e figli, solleva qualche dubbio. La provenienza regale della figlia dell’ex capoclan scompare e il retaggio viene parzialmente riscritto, per altro secondo termini umani. I figli parlano inglese, e purtroppo anche molti Na’vi. Anche quelli che poco o nulla hanno avuto a che fare con gli alieni della terra.

Avatar: La Via dell’Acqua è un Blockbuster fragile

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Avatar: La Via dell’Acqua è un ibrido strano. È puro e limpido cinema di domani, sguardo concesso a ciò che attende i grandi schermi; in termini di emozione, di verità, di spettacolo unico che rende inutile ogni schermo che non sposi alla perfezione la magniloquenza imposta dal film.

È però anche un Blockbuster vicino al secolo scorso. Per alcune leggerezze, ne abbiamo sottolineate giusto alcune. Ma soprattutto per una sorta di doppia anima che all’essere massima espressione del cinema digitale affianca ingredienti perduti del supporto fisico. Digitale sì, dunque per ogni schermo. Eppure si realizza compiuto solo se alcuni elementi sono al posto giusto. Ad esempio, non tutte le sale vanno bene. Alcune propongono la versione 3D HFR, l’High Frame Rate con una frequenza di 48 fotogrammi, altre il 3D. Poi c’è l’IMAX e la versione standard.

Le possibilità e i modi sono talmente numerosi, e incerti – alcune sale Giapponesi non hanno retto l’hfr producendo danni al proiettore – che a ogni visione nasce il dubbio di aver assistito al film nel modo giusto. Come quando un mascherino mal posizionato da un proiezionista svelava il microfono in inquadratura, o una pellicola rovinata rendeva incomprensibile i film di un cinema che scorreva pezzo per pezzo. Ne risulta un blockbuster fragile, e perciò prezioso, espressione del digitale e resistenza inattesa di un cinema antico.

Pandora non esiste, il cinema sì

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Abitiamo Pandora e non vorremmo mai lasciarla andare. Ma Pandora non esiste. Esiste il cinema, che al pianeta dona soffio vitale. Il desiderio di restare, la volontà di tornare, diventa smania di cinema. Sbirciato il mondo delle meraviglia ci vorremmo regalare subito un secondo giro.

Attendere Avatar – La Via dell’Acqua in streaming su Disney+, per quanto ampie e comode possano essere le vostre tv, è uno sgarbo che si compie a se stessi. È una visione che si ricorda, ma per imprimersi chiede alcuni requisiti. Tra tutti la sala, poi il 3d, infine la volontà di lasciare la terra per un po’. Un momento di ritorno alla sala come luogo in cui il cinema è veramente lo spettacolo più bello al mondo.


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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