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Barbie, Greta Gerwig e la rivincita delle bionde, del rosa, del kitsch

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21 minuti di lettura

On Wednesdays we wear pink. Però stavolta è giovedì e siamo tutti al cinema. Fa niente, basta essere in total pink. È il 20 luglio 2023: finalmente esce Barbie. Gli italiani, contro ogni aspettativa, accolgono l’ultima fatica di Greta Gerwig con sorprendente entusiasmo. Ecco che l’atavica indisposizione dell’italiano medio nei confronti delle uscite cinematografiche estive viene meno come per magia: in un solo giorno, si presentano in sala quasi 285000 persone, regalando a Barbie incassi da record. Greta Gerwig sembra aver fatto il miracolo che ci si aspettava da Mission Impossible: Dead Reckoning, ma non tutti sono convinti che il successo del suo film sia meritato e il pubblico sembra spaccato a metà.

Warner Bros e Mattel, la storica azienda produttrice di giocattoli che ha dato i natali a Barbie, si sono unite in un’impresa che poteva sfociare in un live action insulso o in un lungo spot pubblicitario. Invece le penne di Greta Gerwig e Noah Baumbach hanno osato fare un passettino in più e, pur sempre sotto l’attento controllo di Mattel, hanno scavato nella simbologia di Barbie per ribaltarla, restando comunque fedeli all’iconografia della bambola.

Era il 2020 quando Margot Robbie, scelta per il ruolo di protagonista, rivelava alla stampa che qualsiasi cosa si aspettassero, ne avrebbero ricevuta una completamente diversa. Fin dalle prime indiscrezioni, si era capito che questo film, sotto l’immancabile patina hot pink, avrebbe cercato di raccontare qualcosa di più, tra stereotipi e maschilismo. Ma ci è riuscito?

Benvenuti a Barbieland!

Barbie Margot Robbie a Barbieland in una scena del film di Greta Gerwig scritto insieme a Noah Baumbach

Margot Robbie è Barbie Stereotipo, Ryan Gosling il suo Ken. Come recita la tagline del film, “lei può essere tutto ciò che vuole, lui è solo Ken“. A Barbieland, infatti, le donne sono dottoresse, presidenti, fisiche, astronaute, giudici, possiedono case e abiti stupendi, sono indipendenti e ogni sera, dopo una festa pazzesca, fanno un pigiama party tra sole ragazze. Gli uomini, dal canto loro, non hanno neppure un posto dove andare a dormire, ma non se ne curano: ottenere la compagnia e l’amore di Barbie è lo scopo dell’esistenza di un Ken. Dopotutto, la storia del brand ce lo insegna: prima c’è Barbie, solo poi viene inventato Ken.

Quando Barbie Stereotipo riscontra alcune stranezze nel proprio comportamento, è costretta a cercare l’umana che gioca con lei nel Mondo Reale per risolvere la situazione (non può permettersi di essere imperfetta!). Ken, ovviamente, la segue. È uno shock per entrambi: Barbie scopre che le bambole Mattel non hanno aiutato a migliorare la condizione della donna e, anzi, sono malviste in quanto simbolo di una bellezza vuota, anacronistica e impossibile da raggiungere; Ken, invece, adora questo nuovo mondo nel quale gli uomini ricoprono quasi tutte le posizioni di potere e vuole diffondere la cultura del patriarcato anche a Barbieland.

Vittime consapevoli della Barbie mania, tra una marketta e un Barbienheimer

Per parlare onestamente di Barbie è necessario riconoscere l’impatto della campagna promozionale messa in atto da Warner Bros, tanto costosa quanto ingegnosa e capillare. Considerando che il budget di Barbie si aggira attorno ai 145 milioni di dollari, il marketing dovrebbe essere costato – secondo alcune ipotesi – più di 100 milioni, come si addice a un evento globale di questo tipo. Considerando che il film ha oltre 100 accordi di licenza, è ragionevole pensare che la cifra corretta equivalga almeno al doppio.

Josh Goldstine, presidente del global marketing presso Warner Bros che ha lavorato a più di 250 film nel corso della propria carriera, ha dovuto ammettere che il successo di questa campagna è stato fuori dal comune (è stata così potente da trainare anche Oppenheimer, film di tutt’altro tenore ma in uscita nella stessa data negli USA, e per questo oggetto di meme sul web). Barbie è diventata onnipresente, al punto che ormai è sufficiente un cartellone rosa con la data di uscita del film scritta in un angolo nel font giusto, per fare pubblicità. L’estetica del brand ha invaso le nostre vite, soprattutto nei tre mesi che hanno preceduto l’uscita in sala, e siamo stati tutti vittime della Barbie mania.

Il Selfie Generator è stato solo l’inizio. Sarebbe impossibile elencare qui tutte le collaborazioni, dalle aziende che si occupano di home decor a quelle di make-up e moda: Homesick con le candele, OPI con una linea di smalti, NYX col make-up, Ruggable con i tappeti…

margot robbie barbie rollerblade impala

La marketta prosegue all’interno della stessa pellicola, con un product placement che ha fatto storcere il naso a qualcuno ma che è stato perfettamente incorporato nel film. Compaiono l’iconica Chevrolet Corvette C1 rosa di Barbie (con conseguente aumento della domanda per il veicolo!), le Birkenstock, protagoniste di due scene del film (e ora tutti vogliono il modello rosa indossato da Margot Robbie), qualche appariscente accessorio firmato Chanel (di cui Robbie è ambasciatrice dal 2018), i rollerblade Impala, che permettono ai personaggi di spostarsi da Barbieland al Mondo Reale e viceversa (venduti a 189,95€ sul sito di Impala).

Grazie alle recenti operazioni di marketing legate al film e non solo, la bambola Mattel non è più un prodotto per bambine, ma un’esperienza per tutti. Da giocattolo a brand di lifestyle: i suoi outfit non sono stravaganti e infantili ma chic, la sua casa a Malibù è un sogno da affittare su AirBnb. È il coronamento del rebranding partito già una decina di anni fa, quando Mattel ha iniziato a sfornare bambole che abbracciano l’inclusività e la diversità, ascoltando le voci di chi la accusava di propinare alle bambine un’immagine stereotipata e frivola della donna.

Così oggi, ai nostri occhi, Barbie è tutt’altro che una magrissima biondina materialista e superficiale. Si trasforma in una donna forte e autonoma che “può essere tutto ciò che vuole”, e questo succede per mezzo (anche) di un film la cui sceneggiatura fa leva su alcune caratteristiche preesistenti della bambola – quelle che possono tornare utili ed essere rivendute con qualche accortezza – e che ne aggiunge di nuove.

Il consiglio per lo spettatore è il seguente: prima di entrare in sala alla ricerca dello spirito indie di Greta Gerwig, ci si ricordi che il film su Barbie non è altro che una fase dell’operazione di rebranding e di riposizionamento di Mattel.

Aesthetic Barbiecore: ci piacciono gli altri colori, ma il rosa ci sta così bene!

Così canta Lizzo nella canzone dell’incipit di Barbie, e non poteva scegliere parole migliori. L’estetica Barbiecore è l’ultima moda ed è parte integrante del marketing di Barbie. Il trend consiste nel vestirsi di rosa dalla testa ai piedi: lo faceva già Reese Whiterspoon in La rivincita delle bionde (Robert Luketic, 2001), lo hanno fatto le modelle di Moschino nel 2015 sfoggiando in passerella una collezione primavera estate che sembrava uscita dagli armadi di Barbieland e lo fa, da quale mese a questa parte, Margot Robbie su ogni red carpet che solca. È lei ad aver riportato in auge il Barbiecore grazie alla miriade di outfit total pink scelti dal suo fashion stylist, Andrew Mukamal.

Margot Robbie ha indossato abiti geniali, spesso ispirati a quelli veri utilizzati da Barbie nel corso dei decenni, dal costume da bagno a righe bianche e nere della primissima bambola messa sul mercato all’abito nero glitterato della Spotlight Doll ricreato per l’attrice da Schiaparelli. È Margot Robbie l’arma segreta per diffondere il verbo del Barbiecore che spopola su Pinterest e conquista le ragazze. Non basta che sia rosa però: l’essenziale è che sia camp e molto chic, come la collana di conchiglie al collo di Barbie in una scena del film.

collana conchiglie barbie margot robbie

Ma perché quest’impiego spropositato di rosa in Barbie? Gerwig e il suo team hanno scelto di tingere vestiti, accessori, mobili, intere scenografie di hot pink o altre sfumature di questo colore. Hanno usato tanta di quella vernice da causare una carenza globale del prodotto. La regista sembra volersi riappropriare di un colore da sempre legato alla sfera femminile ed evitato da quelle donne che vogliono inserirsi in un ambiente maschile. Il rosa, infatti, è considerato troppo appariscente, vistoso, quasi kitsch: meglio non indossarlo a un colloquio di lavoro, il blu scuro è più adeguato.

In Barbie, Gerwig rivendica tutto ciò che è considerato “da donne” (il trucco, il rosa, i vestiti, i pigiama party) e prova a trasformarlo in iconografia femminista e simbolo di empowering. Barbie, infatti, non cambia mai il suo stile per compiacere gli altri, tanto meno un uomo. Né si sente meno professionale o autorevole perché indossa i tacchi. Allora il rosa non è più il colore da evitare perché infantile e invalidante, ma un motivo di orgoglio. Questo è il primo ribaltamento messo in atto da Gerwig.

Un comparto tecnico da urlo e una sceneggiatura altalenante

I vestiti sono la forma di espressione di Barbie e tornano prepotentemente nel film dopo aver passeggiato sui red carpet di tutto il mondo. Qui il merito va alla costumista Jacqueline Durran, già al fianco di Gerwig per Piccole Donne, vincitore dell’Oscar ai migliori costumi nel 2020. Ha creato centinaia di look insieme al suo team, continuando a lavorare durante le riprese. Le regole cromatiche da seguire erano molto rigide, contenute in una tabella da rispettare con attenzione: non solo sfumature di rosa ma anche colori pastello, sfruttati in non più di una quindicina di combinazioni cromatiche. Le ispirazioni per i costumi sono state varie e, nonostante prevalga uno stile anni ’80, i personaggi indossano outfit riconducibili a differenti epoche.

I costumi si sposano alla perfezione con la scenografia di Barbieland, curata da Sarah Greenwood (scenografa sei volte candidata all’Oscar) e Katie Spencer (arredatrice di scena). Barbieland esplode in faccia allo spettatore come una Big Babol. L’universo di plastica di Barbie è trasferito maniacalmente nel film: ci sono tutti i suoi mezzi di trasporto più iconici, il mare è finto (come quello di Fellini in E la nave va) perché l’acqua e il fuoco non esistono, le case sono senza facciata affinché si possano vedere gli interni da fuori.

barbie specchio margot robbie

Una delle ispirazioni dichiarate è L’Idolo delle donne (Jerry Lewis, 1961), che ha influenzato sicuramente l’archittettura degli edifici e ha dato l’idea dello specchio-cornice privo della superficie riflettente (a che cosa serve uno specchio vero quando si è una bambola perfetta?).

Barbieland è deliziosamente finta e diventa lo sfondo perfetto per le coreografie in stile Cantando sotto la pioggia (Stanley Donen, Gene Kelly, 1952). Margot Robbie, Ryan Gosling, Simu Liu e il resto del cast si gettano in performance elettrizzanti sulle note delle canzoni scritte per il film e raccolte in Barbie The Album. Lizzo, Sam Smith, Dua Lipa, Ava Max, Billie Eilish sono stati coinvolti nel progetto. Già iconica la canzone I’m Just Ken interpretata da Ryan Gosling, che in questo film regala una prova di alto livello. Il compagno di Barbie, infatti, riesce a rubarle la scena e si prende i suoi spazi (il neologismo “Kenergy” sta già invadendo i social).

Il comparto tecnico impeccabile (le nomination agli Oscar hanno già indossato i rollerblade per raggiungere Barbieland) spicca sulla meno convincente sceneggiatura, sicuramente frutto di compromessi e discussioni accese tra gli autori e Mattel. Qualche volta didascalica e semplicistica, soffre sotto al peso delle aspettative che ci eravamo creati (forse sbagliando). La storia regge benissimo comunque, complice l’ironia di cui è infarcita, e Gerwig se la porta a casa anche stavolta.

Memori del fatto che il film sia un’enorme trovata commerciale, fa piacere notare che Gerwig abbia potuto veicolare messaggi positivi e fondamentali per le bambine di tutto il mondo. La tematica femminista viene affrontata in modo un po’ riduttivo (qualche “spiegone” c’è) ma efficace. Forse proprio per questo raggiungerà meglio le orecchie di chi non mastica questi argomenti e di chi è troppo piccola o piccolo per sentirseli raccontare diversamente. Cos’altro potevamo aspettarci, d’altronde, da un film nato e cresciuto a Hollywood?

Il Barbie femminismo di Greta Gerwig

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Non ho mai pensato a Barbie come a una bambola femminista. A causa del suo aspetto, delle forme del suo corpo, si tende piuttosto a pensare che sia anti-femminista. Prima di iniziare a lavorare al film, non avevo capito il punto di vista di Greta, secondo cui Barbie è stata rivoluzionaria perché ha fatto sì che, per la prima volta, le bambine giocassero con una bambola che aveva una sua volontà e faceva delle cose, anziché con il solito passivo bebè.

Jacqueline Durran, costumista di Barbie

Barbie ha riscosso successo ma ha attirato molte critiche: qualcuno lo considera sopravvalutato, altri si infastidiscono quando viene celebrato come film dell’anno (come dovrebbe essere chiamato un debutto da 2 milioni di dollari in un giorno solo in Italia?), altri ancora ci tengono a far scorrere le dita sulla tastiera per comunicare al mondo che lo boicotteranno.

Tra chi in sala c’è andato, le lamentele più ripetute riguardano la figura di Ken, ritenuto un personaggio stupido e inadeguato a rappresentare in modo opportuno il genere maschile. A ben vedere, però, il Ken di Gosling è soltanto ingenuo (resta pur sempre una bambola di plastica) e dipendente da Barbie. È stato creato come sua estensione e non può immaginare di vivere senza di lei. Non è forse il modo in cui vengono dipinte molte donne nel cinema, fidanzate, madri, mogli sempre al fianco di un uomo, docili e bramose del suo amore? Se i comportamenti di Ken – volutamente teatrali ed esagerati per rispecchiare l’anima del film – vengono percepiti come sintomo di stupidità, forse Greta Gerwig ha raggiunto uno dei suoi obiettivi.

Barbie corre comunque un rischio enorme: cadere nel pinkwashing. Il termine, proprio del marketing, si utilizza per indicare quelle pratiche aziendali che mirano a erigere una facciata femminista per aumentare le vendite e il valore dei brand. Gerwig schiva il pericolo ironizzando sulla stessa Mattel e facendo satira sulla mancanza delle donne ai vertici dell’azienda. Sembra un’autocritica, una presa di coscienza, e tanto basta a convincere il pubblico della buona fede di Barbie.

Quindi lo devo vedere o no?

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Se vi aspettate divertimento, colori accesi e sound pop che balzano fuori dallo schermo, afferrate un outfit rosa fluo e correte al cinema. Barbie è un film orgogliosamente esagerato e kitsch, da guardare solo se si accettano le condizioni di Greta Gerwig e si prende atto del fatto che sia un’enorme marketta creata a regola d’arte. Ci va bene? Sì, perché un film su Barbie, per sua natura, non poteva essere altrimenti. Anzi, poteva essere molto peggio.

E invece eccolo che riporta il pubblico in sala (persino gli italiani in ferie!), intercetta una community di appassionati, dà nuova linfa al dibattito sul cinema, svecchia una bambola portatrice di valori antiquati e consegna alle nuove generazioni qualche spunto di riflessione sul femminismo. Un film imperfetto ma inarrestabile, che intrattiene, emoziona, unisce. Un film che – ci dispiace per gli haters – è già un cult.


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Classe 1998, con una laurea in DAMS. Attualmente studio Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna e mi interesso di comunicazione e marketing. Sempre a corsa tra mille impegni, il cinema resta il vizio a cui non so rinunciare.

2 Comments

  1. Pensavo che dal 23 Luglio, data di questo bel testo, ad oggi (4 Agosto) avrei trovato una serie di commenti all’articolo, di cui metà inneggianti a Barbie, al film, al femminismo, e metà concentrati su ”Americanità” e ”Radical Chic”, ipocrisia e così via.
    Invece silenzio assoluto.
    Io mi metto tra quelli che hanno trovato geniale l’idea di base, vedono comunque una operazione di marketing, ma ben fatta, e che pensano che non solo il film fa pensare, ma riesce, con qualche colpo di raffinatezza, a portare delle tematiche profonde ed umane all’interno di una pellicola creata professionalmente per avere uno straordinario successo e fare discorsi ”impegnati” ma sempre dentro un certo schema.
    Per esempio, quando Barbie incontra una signora anziana e la definisce ”bellissima” (e quella donna lo è), o quando un signor nessuno entra nel gran consiglio Mattel dove è palese non sia altro che un signor nessuno.
    Sono due esempi, ma ce ne sono molti altri, la donna in scatola, Alan (chi è Alan?), e tanti altri ancora.
    Negli ultimi anni sono stati prodotti film di durata troppo lunga rispetto a quello che avevano da dire, invece Barbie, che ho trovato splendido, è forse troppo breve rispetto alle tematiche che mette in campo.

    • Ciao Manlio, siamo molto contenti che il clima sotto questo articolo sia rimasto sano e privo da commenti beceri che purtroppo ci è capitato di leggere in giro nelle ultime settimane circa Barbie. Grazie per aver letto il mio pezzo e averlo apprezzato!

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