Vi è fior fiore di letteratura critica e teorica sui corpi nel cinema: la scomposizione del corpo tramite montaggio, l’occultamento di cadaveri con giochi d’ombra e più di qualunque altro argomento, i feticismi che hanno guidato registi di ogni epoca nell’inquadrare i corpi, sia maschili che femminili, come pezzi di carne dei quali esaltarne la forma. Non è un mistero che dal fenomeno siano stati colpiti in particolar modo i secondi, fatti di lunghe gambe, vestiti succinti e ruoli attoriali sacrificati alle co-star maschili.
Il documentario Be Pretty and Shut Up!, presentato al Cinema Ritrovato 2024 e diretto nel 1981 da Delphine Seyrig è quella voce che tante attrici non hanno mai potuto usare al pieno delle proprie possibilità, un lungo flusso di coscienza collettivo, fra aneddoti, sentimenti e riflessioni di alcune delle più grandi attrici del secolo scorso.
Il rifiuto dei corpi di Be Pretty and Shut Up!
Ellen Burstyn, Maria Schneider, Jane Fonda, Louise Fletcher, Marie Dubois, Rita Renoir, sono solo alcune delle donne che si sono prestate a questo esperimento cinematografico, a metà fra il documentario antropologico di Jean Rouch/Edgar Morin e gli sperimentalismi di Agnès Varda. A far loro capo da dietro la macchina da presa c’è Delphine Seyrig, attrice e attivista francese che rincontreremo in un altro film de Il Cinema Ritrovato, Golden Eighties di Chantal Akerman. Senza interruzione alcuna, con continui rimbalzi fra un’intervista e l’altra, Be Pretty and Shut Up! avanza come un fiume in piena, traboccante di spunti e di idee.
L’abbondare di attrici ventenni e la misteriosa assenza di famose cinquantenni, scene modificate senza l’input delle donne direttamente coinvolte, un meraviglioso e straziante monologo di Jane Fonda su quanto gli uomini temano l’intimità dell’amicizia femminile e come questo non possa essere tollerato sullo schermo: le riflessioni scorrono come mescolate le une alle altre, iniziano da una bocca e finiscono in quella successiva, rinforzano la nozione che esista una connessione, una sorellanza insita fra donne anche lontanissime nel tempo e nello spazio.
Il punto di Be Pretty and Shut Up! è proprio questo: sottolineare come l’esperienza di vita – e lavoro nel mondo dello spettacolo – femminile sia universale; ogni donna attraversa situazioni ricorrenti e incontra problemi simili a quelli delle sue sorelle, potendo quindi capire, consigliare, confrontare al meglio la propria esistenza con quella delle donne che le stanno attorno. Ma che l’esperienza sia universale di certo non vuole dire che sia monolitica, anzi: ogni attrice porta il proprio apporto personale al flusso di coscienza di Be Pretty and Shut Up!, arricchendo il percorso tracciato da chi ha parlato prima di lei, rinforzandone il messaggio o aggiungendo nuovi spunti alla discussione.
La natura stessa di un documentario del genere – come fu per Comizi d’Amore di Pasolini – risiede nelle parole dei suoi soggetti e non nella forma con cui esse vengono espresse: il comparto tecnico di Be Pretty and Shut Up! è quanto di più frugale possa essere messo in scena, quanto di più cinematograficamente accessibile e democratico si possa immaginare. Non serve una bella fotografia per essere atterriti dal profetico allarme lanciato negli ultimi minuti del film da Ellen Burstyn circa l’imminente collasso climatico, come non serve un audio pulito per sentire le tremende parole di Maria Schneider circa il set di Ultimo Tango a Parigi o le testimonianze contro il razzismo nell’industria dell’attrice Maidie Norman.
Questa asciuttezza serve proprio a non togliere l’attenzione dai discorsi delle protagoniste di Be Pretty and Shut Up!, il verbo che finalmente trionfa sul corpo, la femminilità che finalmente si appropria della complessità negatagli dall’industria cinematografica, la donna che in tutte le sue sfumature, età, imperfezioni e meraviglie torna a risplendere sullo schermo non come star ma come solo donna.
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