Disponibile al cinema dal 27 Aprile, Beau ha paura è l’ultima pellicola targata A24 diretta da Ari Aster, entrato ormai nell’immaginario collettivo con film come Hereditary – Le radici del male e Midsommar ed entrato di diritto tra i rappresentati del nuovo horror. Protagonista del film è uno straordinario Joaquin Phoenix, che qui ha dovuto sicuramente affrontare una delle sfide attoriali più stimolanti della propria carriera, nei panni di un uomo complessato ed evidentemente paranoico. Ari Aster infonde nella pellicola un bisogno ossessivo di mettersi a nudo, la necessità di raccontare le proprie paure, il rapporto con la madre (alla quale il film in un certo senso sembra dedicato).
Sogno, illusione e allucinazione si fondono con una realtà altrettanto onirica e surreale, facendo sì che lo spettatore si lasci trasportare da un flusso di eventi volutamente criptico. Come con una barca in tempesta, Aster guida il vagabondo errare di Beau, così come fa con le nostre percezioni, in un’odissea cinematografica tra redenzione dantesca e viaggio edipico. Con Beau ha paura il regista torna alle atmosfere grottesche di Midsommar, all’horror arthouse, contaminandolo di un inquietante umorismo nero. Un film divisivo per sua stessa natura, ma assolutamente imprescindibile. Allacciate le cinture e tenetevi forte, perché il viaggio sarà alquanto turbolento.
Beau ha paura: un paradossale flusso di coscienza
Beau è un uomo di mezza età schizofrenico e paranoico. Il film si apre con una visione in soggettiva del momento stesso della sua nascita. La madre si domanda perché non stia piangendo, quasi a voler sottolineare quella che sarà una vita contraddistinta dalla sofferenza. Quando finalmente arriva il primo gemito, il film compie un immediato balzo in avanti. Vediamo Beau durante una seduta con il suo psicanalista, le cui osservazioni rivelano immediatamente il complicato e controverso rapporto dell’uomo con la madre.
Conclusa la seduta, Beau si trova proiettato in una realtà completamente surreale, in cui la società odierna sembra essere portata all’esasperazione. Le strade pullulano di anime errabonde, che a stento l’uomo riesce a tenere fuori dal palazzo dove vive, metafora forse di quei traumi e quelle paranoie che affollano la sua mente. Ciò che sappiamo per certo però, è che Beau ha in programma un viaggio per raggiungere la madre, ma proprio nel momento in cui esce dalla porta di casa per dirigersi all’aeroporto, i suoi bagagli e le sue chiavi spariscono improvvisamente, apparentemente rubati.
Da questo momento in poi, sarà impossibile discernere la realtà dall’illusione, comprendere se le assurde e allucinanti vicissitudini in cui Beau viene catapultato corrispondano al vero o rappresentino in realtà i paradossali voli pindarici di una mente completamente offuscata. Beau ha paura diventa un viaggio tra i sensi di colpa di un uomo completamente tormentato dal proprio rapporto con la madre. Un flusso di coscienza tra traumi infantili, desideri repressi e incubi esistenziali.
La natura edipica del viaggio
Nel corso della propria narrazione Beau ha paura delinea i tratti di un uomo morbosamente legato alla figura materna, nonostante rappresenti in realtà il motivo principale dei suoi traumi. L’ossessione verso la madre è da ricollegarsi, innanzitutto, alle bugie che quest’ultima gli ha raccontato, prima su tutte la fantomatica sindrome congenita che ha portato alla morte del padre durante il suo concepimento. Beau ha una sfera sessuale del tutto assente e una virilità repressa. Ha l’aspetto di un uomo adulto, ma è rimasto un bambino e si comporta come tale.
Ari Aster plasma la figura di Beau intorno a quella di Edipo attingendo a piene mani al complesso freudiano. La relazione morbosa con la madre, un padre morto a causa sua – in un certo senso -, la possibilità di scorgere il proprio futuro e la colpevolizzazione, sono infatti evidenti similitudini che svelano la natura edipica del viaggio di Beau. Edipo, inoltre, rappresenta proprio il simbolo dell’uomo che lotta inutilmente per sfuggire a un destino già scritto.
Tra flashback, ricordi repressi, fantasie e sogni ricorrenti Beau ha paura traccia la vita del suo protagonista, perennemente attanagliato da un inevitabile senso di colpa. Una vita di rimorsi e delusione, che si conclude con un processo alla coscienza criptico e anticlimatico, dove un pubblico, probabilmente metafora di noi spettatori, giudica Beau una volta per tutte, facendolo sprofondare nelle oscure acque che allagano la sua mente.
Beau ha paura: un Aster criptico e surrealista
Se con Midsommar Ari Aster si approcciava per la prima volta al folclore orrorifico e grottesco, rimanendo però sempre piuttosto ancorato alla realtà – ed era quello l’aspetto che lo rendeva così inquietante -, con Beau ha paura si serve invece di un criptico surrealismo, svelando le proprie influenze: Lynch e Kaufman su tutti.
L’ultima pellicola di Ari Aster potrebbe avere decine di significati, nascosti tra le pieghe di un simbolismo quasi respingente, che non fa niente per facilitare la comprensione dello spettatore, ma potrebbe anche non averne nessuno. Se vi metteste a cercare una risposta, come foste davanti a un enigma, correreste il rischio di sprofondare insieme a Beau.
Guardando Beau ha paura si ha la sensazione di aver assistito a un qualcosa in grado di trascendere la narrazione cinematografica, per diventare in realtà pura esperienza sensoriale. Giunti alla fine del viaggio, davanti a quei titoli di coda che scorrono sul grande schermo, e che un po’ come quelli di Chiamami col tuo nome o È stata la mano di Dio aiutano a elaborare quanto visto fino a quel momento, vi troverete immersi in un silenzio assordante. Il contrappasso per tre ore di cinema visionario, folle e straripante. Divisivo, certo, ma forse è il più grande complimento che si possa fargli.
Seguici su Instagram, Tik Tok, Twitch e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!