Oggi, 5 luglio, è la giornata internazionale del bikini e vogliamo approfittare di questa ricorrenza per ripercorrere la storia che lega questo indumento al cinema, all’immaginario cinematografico e al valore attribuito e riconosciuto al corpo femminile. Sono molti gli esempi di bikini famosi indossati da grandi attrici, scene immortali divenute tali proprio grazie alla presenza del bikini, ma anche esempi di donne ricordate solo per il proprio corpo tramutato, proprio dal cinema, in un oggetto irresistibile.
Storia del bikini
È un sarto francese, Louis Réard, a lanciare ufficialmente sul mercato il bikini moderno, che appare per la prima volta nel 1946 a Parigi. L’effetto fu travolgente e provocatorio allo stesso tempo, ma ci fu subito un primo problema: trovare una modella che fosse disposta ad indossare il bikini sfidando le convenzioni e i benpensanti.
Fu Micheline Bernardini, spogliarellista del Casino de Paris, a posare per lo stilista, rendendo ancora più provocatorio il nuovo capo femminile. Per lungo tempo il bikini fu malvisto e ostracizzato, fu proibito indossarlo al concorso per Miss Mondo e fu vietato in diverse spiagge europee e americane.
Fu soprattutto grazie al cinema che il bikini entrò nell’immaginario comune e si diffuse sempre più tra le donne che riconoscevano nelle attrici che lo indossavano dei modelli da seguire.
Le grandi attrici del tempo cominciarono ad indossare il bikini non solo a favore del film che stavano interpretando ma anche al di fuori dei set cinematografici: possiamo ricordare Brigitte Bardot sulla spiaggia della Costa Azzurra, Marylin Monroe, Ava Gardner e Rita Hayworth, tutte attrici ricordate e amate anche (e forse soprattutto) per la loro bellezza. Il bikini aumentava la loro fascinazione, metteva in risalto il corpo in una maniera totalmente inedita fino a quel momento, la sensualità era al centro ed era una caratteristica da rivendicare.
Il bikini nel cinema e il problema dello sguardo
Il bikini – da strumento per una sorta di rivendicazione della libertà fino a quel momento negata – si tramuta presto nel mezzo perfetto per esaltare il corpo femminile, renderlo più sensuale e appetibile allo sguardo maschile. L’oggettificazione sessuale del corpo femminile è la tematica più problematica collegata al nostro discorso. Il corpo delle donne, infatti, è sempre stato al centro di rappresentazioni visuali, oggetto di attrazione innegabile, a volte rivendicato, molto più spesso strumentalizzato.
Con oggettificazione sessuale si intende l’atto di ridurre il valore di una persona solamente alla sua sensualità, ridurre, cioè, quella persona a un corpo che diventa oggetto del piacere e dello sguardo maschile (male gaze). A contribuire in maniera significativa al fenomeno dell’oggettificazione sono senz’altro i media, giornali, cinema, televisione che veicolano immagini di donne e uomini con corpi che rispondono a un ideale di perfezione irraggiungibile.
La discussione intorno a queste tematiche è piuttosto articolata e complicata da affrontare, fin dagli anni ’70/’80, infatti, una parte della critica femminista si oppone a certe rappresentazioni del corpo femminile e a certi generi cinematografici, come la pornografia, perché li considera fondati sull’oggettificazione del corpo della donna. Al contrario, però, un’altra parte difende queste pratiche e questi generi rivendicando proprio la libertà della donna di usare il proprio corpo in assoluta libertà, al grido dello slogan Il corpo è mio e decido io.
Il punto di differenza sostanziale starebbe tutto, come sempre avviene, nell’intenzione dello sguardo di chi guarda. A sostegno del nostro discorso e alla base degli studi presi a riferimento, troviamo il pensiero di due studiose: la critica cinematografica Laura Mulvey e la filosofa Martha Nussbaum.
Martha Nussbaum è una filosofa americana impegnata nello studio intorno alla dignità umana e alla giustizia sociale che spesso si è concentrata sulle ineguaglianze di libertà e opportunità tra uomini e donne e che nel tempo ha sviluppato una forma personale di femminismo.
Il nome di Nussbaum emerge spesso all’interno dei discorsi legati ai media e alla strumentalizzazione del corpo proprio per aver approfondito il concetto di oggettificazione e per aver individuato sette caratteristiche attraverso cui questo si manifesta: la strumentalità, la negazione dell’autonomia, l’inerzia, la fungibilità, la violabilità, la proprietà da parte di terzi e la negazione della soggettività dell’individuo.
Laura Mulvey è colei che nel 1975 propone la teoria del male gaze secondo cui le donne sono rappresentate sempre attraverso la concezione dello sguardo maschile e concepite spesso come veri e propri oggetti del desiderio, fantasie erotiche che sono poi entrate nell’immaginario comune e hanno contribuito a perpetrare quegli stereotipi maschilisti e patriarcali del tutto.
Gli esempi che seguono propongono tutti un’immagine ormai entrata nell’immaginario comune, un’attrice che indossa un bikini diventato iconico, ma ciò che più ci interessa è portare avanti un ragionamento, una riflessione, provare a vedere se il bikini è stato usato esclusivamente come strumento per oggettificare la figura femminile, o se i personaggi analizzati possono essere visti come dei modelli di un pensiero altro, possono essere presi come simbolo di rivendicazione.
1962, 007 Licenza di uccidere, il bikini bianco di Ursula Andress
Il primo esempio è il personaggio di Honey Rider, interpretata da Ursula Andress, la prima Bond Girl della serie cinematografica che con la sua apparizione sulla spiaggia ha settato per sempre la concezione di tutte le successive ragazze di Bond.
Bond Girl è il titolo che viene dato ai personaggi femminili principali della saga, possono assumere diversi ruoli all’interno della storia: quello di vittima da salvare, quello di alleata di Bond o di assistente del nemico di turno, ma ciò che le accomuna tutte è che, pur venendo presentate come donne indipendenti e in grado di difendersi da sole, si ritrovano tutte in situazioni in cui devono affidarsi a Bond per essere salvate.
In questo modo sembrano possedere le sette categorie dell’oggettificazione individuate da Nussbaum in quanto non vengono approfondite in maniera tale da farne un personaggio reale ma solo un simbolo di bellezza e sensualità, sono prive di una propria autonomia e agentività e sono molto spesso strumentalizzate da Bond stesso esclusivamente per raggiungere il suo scopo (il sesso).
Tutto questo è sottolineato anche dai loro nomi che sono spesso allusivi sessualmente come Honey Rider, appunto, Pussy Galore o Octopussy. Le Bond Girl rientrano perfettamente anche nel discorso portato avanti da Mulvey circa lo sguardo maschile, questi personaggi sono scritti, rappresentati e ripresi in maniera tale da rispondere perfettamente alle esigenze dello sguardo e del piacere maschile, sono delle vere e proprie incarnazioni delle fantasie erotiche maschili.
All’interno di questo discorso la Honey Rider di Ursula Andress è l’esempio perfetto. La sua apparizione sullo schermo è una delle scene più iconiche della storia del cinema: Andress emerge dall’oceano indossando un bikini bianco a cui è stata aggiunta una cintura con un coltello, il sole accentua il biondo dei suoi capelli e il suo corpo perfetto.
La scena presenta immediatamente sia il personaggio di Honey Rider sia l’attrice Ursula Andress come sex symbol e il bikini bianco entra di diritto nell’immaginario comune e diventa uno dei più memorabili della storia del cinema.
La scena è stata talmente dirompente che ha creato un immaginario venendo citata molto spesso anche all’interno della stessa saga di James Bond: come non ricordare a questo punto un altro celebre bikini della storia del cinema, quello indossato da Halle Berry nel film del 2002 La morte può attendere.
La scena ricalca pari pari l’apparizione di Andress accentuando ancora di più la carica erotica e sensuale dell’attrice e sottolineando la funzionalità dello sguardo maschile, letteralmente noi spettatori vediamo l’attrice attraverso gli occhi di James Bond. Anche il bikini arancione che indossa Berry è una citazione dichiarata di quello indossato da Andress in Licenza di uccidere.
1962, Lolita di Sue Lyon, Stanley Kubrick e il fattore decisivo
Il secondo esempio è l’adattamento cinematografico di Stanley Kubrick del romanzo di Vladimir Nabokov, Lolita, in cui viene raccontata la storia di Humbert Humbert, un uomo di mezza età che si innamora di una ragazzina di 12 anni (portata a 14 nell’adattamento cinematografico) interpretata da Sue Lyon.
La storia è raccontata in prima persona dal professor Humbert che si costituisce come un narratore inaffidabile che presenta solo il proprio soggettivo punto di vista. Noi spettatori, quindi, dobbiamo compiere un’operazione di sospensione del giudizio e cercare di aderire alla sua percezione.
Come sempre in Kubrick, il film è una storia di ossessione, in questo caso l’ossessione del professor Humbert per Lolita, l’oggetto del suo desiderio, utilizzata dal regista per indagare e rappresentare l’ossessione come fenomeno in sé. Lolita viene infatti rappresentata solo ed esclusivamente come oggetto del desiderio di Humbert Humbert (e di Quincy), una rappresentazione totalmente passiva che non concede mai una reale indagine del suo personaggio.
In questo senso Lolita rientra perfettamente nelle categorie dell’oggettificazione di Nussbaum venendo costantemente strumentalizzata, dal regista e dal protagonista, ed essendo priva di una qualsiasi autonomia, infatti, anche quando decide di allontanarsi da Humbert non lo fa autonomamente ma affidandosi a un altro personaggio, Quincy, che opera su di lei lo stesso trattamento del professore. Lolita è quindi un mero oggetto del piacere sessuale degli uomini coinvolti in questa storia, non è un personaggio vero ma solo una fantasia erotica.
Ciò è reso molto bene dalla scena forse più famosa del film di Kubrick in cui è possibile riscontrare una perfetta messa in scena della teoria del male gaze di Mulvey: la scena è quella del primo incontro tra il professor Humbert e Lolita in cui la ragazza è in giardino a prendere il sole e indossa il suo famoso bikini, l’indumento maggiormente provocante e succinto potesse indossare, utilizzato, come nell’esempio precedente, per aumentare la carica sessuale del personaggio.
Oltre alla decisione di far indossare a Lolita un bikini provocante è la scelta di riprenderla attraverso primi piani delle sue gambe, del suo viso e di altre parti del suo corpo che aumenta l’atto di oggettificazione, di sessualizzazione e di deumanizzazione operato sul personaggio.
1983, Star Wars – Il ritorno dello Jedi, il costume da schiava della Principessa Leia
Più complicato da analizzare è il personaggio della saga di Star Wars Leia Organa e il suo altrettanto famoso bikini. La principessa Leia, interpretata da Carrie Fischer, è membro del Senato Galattico e ricopre un ruolo importante nell’Alleanza Ribelle, viene presentata come un personaggio indipendente, una combattente coraggiosa e brillante che fin dalla sua prima apparizione viene accolta come un’icona femminista.
Contemporaneamente il personaggio di Leia Organa appartiene a tutte le fantasie maschili dei fan di Star Wars e viene ricordata come sex symbol. È possibile questa doppia percezione? E da cosa è dovuta? Due sono gli outfit collegati al personaggio della principessa Leila: la tunica bianca molto accollata che ricorda i vestiti greci accompagnata dalle due trecce di capelli arrotolate ai lati della testa e il bikini di rame che indossa quando è imprigionata da Jabba the Hutt.
L’iconico bikini da schiava è composto da un reggiseno di rame a motivi geometrici e una parte inferiore composta da due lembi di stoffa tenuti insieme da un perizoma anch’esso di rame, il tutto accompagnato da diversi accessori tra cui un collare con una catena che la tiene legata a Jabba the Hutt.
Studi operati sull’universo cinematografico di Star Wars sostengono che il cambiamento dei costumi dei personaggi femminili sia collegato alla progressione delle loro relazioni sentimentali e che sia funzionale a un allontanamento dai ruoli di leader politici in favore di ruoli più passivi e secondari di partner romantici. Gli abiti diventano più succinti e i capelli si sciolgono proprio per discostarsi dall’ufficialità e serietà di una carica politica in favore di un’immagine più seducente e meno aggressiva e di conseguenza maggiormente apprezzabile dallo sguardo maschile.
Quando Leia indossa il suo famoso bikini il suo scopo è esclusivamente quello di offrire piacere visivo al suo rapitore (e agli spettatori), è un costume fortemente erotico entrato nell’immaginario pop in brevissimo tempo, a tal punto che nella terza stagione di Friends, quando Rachel chiede a Ross quale sia la sua fantasia erotica, lui risponde proprio la Principessa Leia nel film Il ritorno dello Jedi. Il personaggio di Leia (e Carrie Fischer stessa) è diventato un sex symbol grazie al bikini da schiava, questo ci parla proprio dell’efficacia del costume, Jabba the Hutt fa indossare il costume a Leia allo scopo di dominarla e ridurla in schiavitù, quindi per toglierle potere e ridurla a suo oggetto sessuale.
Jabba the Hutt rappresenta quindi, in un certo senso, il potere dello sguardo maschile sul corpo femminile oggettificato e ridotto a passività, ma sorprendentemente Leia riesce a sconfiggere il suo carceriere, a ucciderlo e a liberarsi proprio sfruttando il costume fortemente sessualizzante che è stata costretta ad indossare. In questo modo Leia abbatte lo stereotipo della donna indifesa da salvare ma è lei a salvare il suo compagno Han Solo. Leia Organa ha un ruolo attivo e significativo all’interno della trama della saga ed è proprio per questo che non è possibile farla rientrare all’interno delle categorie dell’oggettificazione di Nussbaum e nel suo caso il male gaze è stato sfruttato e strumentalizzato a favore di trama.
2013, Spring Breakers di Harmony Korine, la distruzione dell’immaginario
Korine racconta il viaggio di quattro ragazze durante la settimana dello spring break, un pretesto per gli universitari americani per lasciarsi andare a eccessi di ogni tipo tra alcool, droga e sesso. Le protagoniste arrivano direttamente dalla fabbrica Disney, ricordiamo soprattutto Vanessa Hudgens e Selena Gomez, due idoli delle adolescenti che incarnavano valori positivi, puliti e sereni. Korine prende l’immagine idealizzata e pura che il pubblico aveva delle attrici e la ribalta fino a farle diventare figure fortemente sessualizzate.
Il sogno americano è corrotto, sporco e cattivo, ma il discorso di Korine è profondo e stratificato, non vuole soltanto distruggere gli idoli americani mostrando l’altra faccia nascosta, vuole denunciare il degrado ultimo che la società americana ha raggiunto. Nella critica entra chiunque e qualunque cosa, solo che ha l’aspetto di giovani ragazze carine e ammiccanti.
Le quattro protagoniste per tutta la durata del film indossano bikini provocanti impersonando in tutto e per tutto le fantasie maschili. Si potrebbe quindi pensare che a dominare sia il male gaze, che il film sia costruito proprio in favore dello sguardo maschile che oggettivizza e sessualizza le protagoniste, ma non è così. Queste ragazze, ormai, hanno interiorizzato l’immagine che gli uomini hanno di loro, se ne sono appropriate e cercano di sfruttarla a loro favore.
Chi detiene il potere quindi? L’uomo che sessualizza la donna riducendola solo a un corpo o la donna che, una volta compreso il meccanismo, lo governa sottraendo potere all’uomo e appropriandosi di caratteristiche e comportamenti che rientrano nella comune sfera maschile?
Non è possibile ritrovare nelle protagoniste le caratteristiche dell’oggettivazione di Nussbaum perché sono soggetti attivi che guidano il gioco, determinano i fatti e non li subiscono. Korine indaga la relazione tra lo sguardo maschile e il punto di vista femminista, si serve del primo per cercare di mettere in scena il secondo. Per vincere sull’oggettivazione da parte degli uomini, le ragazze si riappropriano della loro immagine e la usano come mezzo per dichiarare il loro potere.
Seguici su Instagram, Tik Tok, Twitch e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!