Black Knight, la nuova miniserie Netflix scritta e diretta da Cho Ui-seok, é l’ennesima tratta da un omonimo webtoon di successo (in questo caso, creato da Lee Yun-kyun) e pertanto carica di aspettative da soddisfare; ma é anche l’ennesimo prodotto a risentire di un processo di adattamento imperfetto che ha portato, per forza di cose, a una riuscita soltanto parziale. Ecco i motivi che rendono la serie classificabile come interessante ma nulla di più.
Di cosa parla Black Knight
Nel 2071 la collisione di un’asteroide con la Terra ha reso la Corea un deserto e l’aria irrespirabile, spingendo il governo a ricollocare sul territorio i pochi superstiti in base alla loro classe sociale di appartenenza: a una minima parte, identificata con QR code, é concesso di vivere in un ambiente incontaminato creato appositamente dopo la catastrofe mentre i rifugiati, sprovvisti di identità digitale, sono relegati in superficie e vittime dell’inquinamento atmosferico.
In questo scenario post-apocalittico la sopravvivenza della popolazione si trova nelle mani di appositi corrieri, tra cui il famigerato 5-8 (Kim Woo-bin), incaricati di consegnare a domicilio viveri e ossigeno e lungo la strada proteggere i carichi da eventuali ruberie: dei veri eroi agli occhi di rifugiati come Yoon Sa-wol (Kang Yoo-seok), per i quali diventare un deliveryman rappresenta l’unica speranza di sfuggire a un triste destino.
Black Knight, un format spettacolare ma ripetitivo
Oltre all’intrigante figura dei deliverymen, Black Knight beneficia di una messa in scena spettacolare e di un’atmosfera alla Mad Max: Fury Road (decisamente meno rock e irruenta): un ambiente soffocante abitato da poche cose tra cui vento, sabbia e il frastuono dei motori con aggiunta di colpi, massicce uniformi e maschere, pesanti tanto quanto l’aria che si respira. Mescolando sequenze d’azione eccezionali con velati riferimenti al cult di George Miller la serie si carica di una superbia visiva importante, fattore determinante in un prodotto di questo genere e alla base della sua capacità di coinvolgimento.
A declassare Black Night non è l’idea né la forma, quanto l’ispirazione un po’ troppo esplicita a cult recenti che anche per i meno esperti è impossibile non notare: a partire dai meccanismi di eliminazione alla Squid Game fino al Core District degna copia di Capitol City di Hunger Games, e come per l’arena con sfarfallio ad evidenziarne le falle. Dulcis in fundo la corsa in auto degli aspiranti deliverymen, mix perfetto tra Mad Max (ancora) e Fast & Furious.
Storia trita e ritrita la divisione in classi sociali la cui assenza, non la presenza, di questi tempi desta qualche sospetto. Da qualche anno l’impostazione piramidale della società ha infatti perso il suo carattere innovativo, diventando canone standard di certi prodotti mainstream eppure restando distante dalla soglia di tolleranza quel tanto che basta a fare presa sul pubblico ancora adesso. Una premessa, insomma, che in Black Knight non disturba ma che avrebbe suscitato molto più scalpore se la serie fosse uscita subito dopo il webtoon.
Perché a Black Knight serve una seconda stagione
Black Knight è una serie dalla partenza promettente che finisce per lasciare lo spettatore un po’ a bocca asciutta: colpa della relativa brevità delle puntate e del loro essere poche in numero, se rapportate al materiale narrativo messo in gioco e (inevitabilmente) esplorato soltanto in parte. È ciò che succede quando l’adattamento da una forma d’arte all’altra non viene perfettamente calibrato, o se nella sua messa a punto si tralascia qualche dettaglio sperando che i pregi della serie offuschino le incertezze.
La parziale riuscita di Black Knight si deve anche al suo essere frettolosamente autoconclusiva e al ricorso insolente ad espedienti narrativi ormai privati del loro potere inebriante perché riproposti senza modifiche sostanziali o accezioni nuove. Infine a far storcere il muso è il trattamento riservato ai corrieri, il cui fascino si perderebbe per strada man mano che ci si avvicina alla conclusione se non fosse per la dominante presenza di Kim Woo-bin.
Come altri prodotti meno recenti Black Knight stimola la riflessione sul futuro dell’industria, che spesso sembra sorvolare su dettagli delle trame per focalizzarsi sulla creazione di un contorno spettacolare e dimenticando che il pubblico, pur volendo quel contorno, se ne dimentica se la storia presenta non poche sbavature.
Non siamo di fronte ad un prodotto scadente, sia chiaro, ma il proseguimento con una seconda stagione è la sola speranza per Black Knight di fare il salto di qualità. Seppure al momento nulla sia certo in tal senso, speriamo che la libertà di azione concessa al regista lo spingerà a tornare dietro la macchina da presa e chiarire la serie di ‘come?’, di ‘ma’ e di ‘perché?‘ che necessitano ben più di un cielo azzurro a fine puntata.
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