Della distopia oggi si dice che viene superata dalla realtà: Chatgpt, dipinti e immagini, video addirittura, generati da svariate Intelligenze Artificiali in altrettante svariate tecniche artistiche, mille modi per interfacciarsi. Basti solo pensare che anche il Metaverso, che fino a un anno fa veniva presentato come un’invenzione rivoluzionaria, è diventato (in parte) mediaticamente obsoleto.
Black Mirror 6 non può far altro che rifletterci su e, quindi, stare al passo coi tempi, spronandosi a più non posso, unendo i generi, mescolando le carte della società, ricalcolando gli spazi. Siamo in un presente distopicamente fantastico, come nella puntata Mazey Day, ma anche in un passato fantascientifico, come in Beyond the Sea, con due enormi Aaron Paul e Josh Hartnett.
Una stagione corta, come sempre, ma che nelle sue cinque puntate si approccia alle nuove forme contemporanee di distorsione della realtà e della temporalità. Un lavoro non facile, soprattutto nell’epoca in cui del distopico rimane maggiormente il “topico” piuttosto che il “dis”. E cosa ci resta? Il possibile, una volta impossibile.
Joan è terribile, la Black Mirror autoironica
La sesta stagione di Black Mirror parte così in grande stile, con Joan è terribile, brillante commedia d’azione, che apre la stagione in modo ironico e autoreferenziale. Una donna in carriera, Joan (Annie Murphy), è vittima di una strana truffa: la piattaforma streaming Streamberry, copia parodica di Netflix, sta creando una Serie TV proprio sulla sua vita dove, una Joan “fasulla” interpretata da Salma Hayek, mostra gli aspetti più scabrosi e intimi della sua persona. Da qui parte una ricerca sfrenata al colpevole, attraverso vie legali e loop artificiali infiniti, che porteranno Joan di fronte a una verità addirittura più grande dell’esistenza stessa.
La narrazione equilibrista vuole appunto ingannare l’occhio dello spettatore, è una scatola dentro un’altra scatola dove la vita di Joan è determinata secondo un concetto specifico: aprire il vaso di Pandora per sversarne fuori il reale contenuto. La distopia, oggi, funziona allo stesso modo. Joan sarà anche terribile, ma non è così un po’ per tutti? Non ci è sempre stato detto che, nel complesso, nessuno è buono o bravo e che chiunque nasconde una parte nascosta segreta inaccessibile? In questo senso non conviene, ma serve aprire i microfoni, accendere le macchine da presa: smascherare il possibile-impossibile, cementare un legame ormai scontato tra schermo e realtà.
Ma Joan è terribile non è banale per questo; invece, santifica sarcasticamente un The Truman Show della contemporaneità, lo stesso che guardiamo noi sullo schermo. Alla fine della puntata (e non è spoiler) verranno fuori tante versioni di Joan (Annie Murphy, Salma Hayek e addirittura Cate Blanchett), ma ironicamente nessuna di queste versioni risponderà alla domanda principale “chi è che comanda tutto questo?”, perché, una volta spenti i televisori, tablet, smartphone è Joan, agnello sacrificale del postcinema, che ancora parla e si interroga: “chi comanda tutto questo?”, “chi ci libererà?”.
Cosa rimane del resto?
Soliti interrogativi, soliti show. Il resto che avanza Netflix lo produce fagocitando qua e là l’immaginario pop: eppure ci fu un tempo in cui Black Mirror sapeva insegnare al posto di apprendere. C’è un thriller che sa di horror shyamalaniano in Loch Henry, dove il cinema d’inchiesta – vicino alle nuove forme podcasting di true crime – aiuta a scoprire il dramma di una famiglia taciuto per anni (c’è anche un pizzico di sadica ironia da revenge porn, una volta finito l’episodio).
Poi, Black Mirror ritorna a dialogare sul nuovo concetto di post-lavoro, con il fantascientifico e scenograficamente nostalgico Beyond the Sea, dove il dramma romantico incontra la Serie Scissione.
C’è, inoltre, uno scontatissimo Demone 79, dove Netflix sembra veramente cadere nello stesso tranello che ha generato per il suo pubblico: anni ’70 (già si sa), Nida (Anjana Vasan) è una ragazza rimasta incastrata in una maledizione che la lega a un demone. Per questo motivi è costretta a uccidere almeno tre persone a sua scelta, in alternativa il mondo sarà colpito da terribili cataclismi che porteranno all’estinzione della razza umana. Stranger Things, Sandman, un po’ della scapestrata Disincanto. Demone 79 vuole convincerci che è diversa, ma in fondo sa che rimarrà sempre la stessa favola.
Mazey Day, il finale imperfetto e innovativo di Black Mirror
E, dulcis in fundo, Mazey Day: non solo un film di strada, dramma sociale tipico di Black Mirror, non solo un episodio inaspettato, non solo un horror: tutte queste tre cose messe insieme e oltre. La summa estetica di Black Mirror. Un ricercato estetismo alla Taxi Driver fa da sfondo all’ambiente urbano di Los Angeles, dove Bo (Zazie Beetz), una paparazza spietata ma disillusa, è sulle tracce dell’attrice Mazey Day (Clara Rugaard), ormai misteriosamente sparita dalla scena da parecchio tempo.
Il penultimo episodio di Black Mirror ci vuole comunicare più degli altri l’insostenibile verità di fondo della Serie TV, ovvero che la distopia è intorno a noi, e non è più una minaccia incombente. Il dramma della contemporaneità è la distopia stessa, un inverso dell’utopia e testimonianza del confuso periodo che viviamo. Travestita da scenario pop, cultura onnipresente nella società postmodernista e figlia degli anni ’90, la Serie TV prodotta da Charlie Brooker è arrivata oggi, alla sua sesta stagione, con una capacità di rinnovamento unica. Non è infatti perfetta, sperimenta nuove realtà e narrazioni, ma a conti fatti ci basta che scandagli il fondale della società capitalistica di cui la distopia, irrimediabilmente, ne è la diretta conseguenza.
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