È curioso come un film sui replicanti sia diventato esso stesso un replicante. Un doppio di se stesso, un revenant destinato a non spegnersi. Ridley Scott ha seguito la duplice direzione delle aspirazioni e del mercato e, dal 1982 in poi, ha prodotto tanti piccoli Blade Runner sempre più profetici e desiderosi – come i loro personaggi – d’infrangere la barriera della mortalità. Di qualche mese fa la notizia di un secondo capitolo, di oltre ventitré anni il Director’s Cut.
Il fatto che Blade Runner continui a parlare all’intelligenza del pubblico è ormai un dato di fatto; non si tratta di un semplice film di culto, di un fenomeno pop alla Blues Brothers in grado di causare la sola impennata di vendite di occhiali o feticci da amatori. Il film di Scott è ciò che comunemente si usa definire immortale. Non solo perché resiste al tempo e allo spazio senza scadere mai nella minestra riscaldata di cui prequel e sequel facilmente abbondano ma perché, incredibilmente, risulta essere cadenzato sulla contemporaneità.
I parallelismi di Blade Runner (1982) con il presente
Per anni si è parlato dell’inquietante profezia di un mondo piovoso e robotizzato, ma mai ci si è soffermati sul costante rimbalzo tra ieri, oggi e domani, cifra stilistica di autori come Fritz Lang che col suo Metropolis ha influenzato uno Scott in stato di grazia.
Mancano ormai pochi anni al 2019 del film, e dire che la realtà abbia superato la fantascienza sarebbe inesatto o quanto meno parziale. Non abbiamo le macchine volanti ma il respiro angosciante e disumanizzante ha cominciato a fare la sua comparsa già da quei ruggenti anni ’80 in cui Ridley Scott ha partorito il capolavoro tratto da Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968) di Philip K. Dick.
L’inter-temporalità di Blade Runner fa sì che la iper-modernità si attacchi alla vita imprigionandola in meccanismi di un ingranaggio sballato. La resa delle inquadrature, gli edifici spersonalizzanti inquadrati dall’alto verso il basso, le architetture di ieri frammiste a quelle di oggi fanno sì che la metropoli del domani diventi simbolo dello squilibrio, dell’inquietudine, della contaminazione.
La Los Angeles del film, popolata da orientali che campeggiano sui grattacieli, potrebbe essere la Pechino 2015 avvolta nella coltre di smog, con la gigantografia di una modella cinese bellissima e ammiccante dall’alto dei duemila piani. I replicanti che non dovrebbero provare sentimenti animerebbero oggi l’hotel giapponese gestito da macchine con sembianze umane. Per non parlare del cibo del futuro, dell’auto che si guida da sola, del supermarket futurista in fase d’inaugurazione a Manhattan.
Tra mitologia e apocalisse postmoderna
Quello che colpisce della pellicola scottiana è una sorta di furore apocalittico che fa convivere le antiche civiltà con il futuro inimmaginabile, i toni biblici ed evangelici con la caduta di ogni ideologia. Riprendendo lo schema prettamente classico della contrapposizione dentro-fuori, alto-basso, luce-buio, il regista secolarizza lo stampo del mito e ne fa metafora perfetta dello spaesamento contemporaneo.
All’Olimpo degli dei si va sostituendo il tempio del capitalismo di massa, all’infondata idea di supremazia sul territorio si sovrappone il pericolo d’invasione dell’altro (il giallo, il nero, lo straniero). Gli spazi vitali di casa vengono spazzati via da ameni non-luoghi che gli uomini cercano di riempire con surrogati d’affetto, giocattoli parlanti non troppo dissimili a quegli smartphone che prosciugano la vita a colpi di messaggistica istantanea.
La luce, costantemente artificiale, impedisce nel film la visione completa delle cose, le nasconde, le occulta oppure le illumina in maniera accecante come fossero al centro di un faro abbagliante. È l’altra faccia del buio, il naturale completamento di una superficie in penombra che non può mostrare la realtà delle cose perché esse stesse sono un errare e un errore.
La città e il caos, il turbinio incessante della vita moderna bagnata da una pioggia da Diluvio Universale mostrano l’incertezza dell’essere umano, il suo essere in preda di un disorientamento esistenziale. In Blade Runner l’uomo non è più in lotta con la macchina ma ne costituisce il doppio a livello creativo; i replicanti sono indistinguibili dai loro cacciatori, gli umani veri e propri sono freddi e distaccati come androidi programmati per non amare.
Chi è il vero replicante in Blade Runner?
La stessa passione tra Rick e Rachael è il sintomo di uno spaesamento profondo, di una volontà di ritorno alle origini che trova sfogo unicamente nell’unione persino carnale tra l’uomo e la macchina. Il replicante non rappresenta l’automa ma è l’essere umano dell’oggi-futuro in crisi d’identità. Tra il vuoto di valori reale e la sopravvivenza come unico obiettivo per chi non ha storia né prospettive future, l’uomo e il replicante si trovano sospesi come due facce della stessa medaglia.
L’essere artificiale ha già consumato l’essere autentico e si è fuso con esso in un unico, grande, prodotto disumano. Nell’era della virtualità l’azione umana è come congelata. Il valore della relazione continua a essere frantumato e quella crisi d’identità teorizzata da Blade Runner nell’82 è diventata una realtà tristemente attuale.
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