L’indole di Venezia79, al suo 90esimo anniversario, l’ha stabilita Dominik: l’adattamento cinematografico di Blonde, il romanzo di finzione di Joyce Carol Oates, ha orientato il giudizio della critica ergendosi, ab initio, a termine di paragone della rassegna. Gusto e sentenze hanno iniziato a profilarsi prima ancora della partenza verso il Lido, in anticipo rispetto alle notizie sul ventaglio di proposte in concorso e non.
Prodotto – tra i molti, insieme a Dede Gardner e Jeremy Kleiner – da Brad Pitt, la trasposizione per lo schermo del cineasta ha scatenato il fervore della critica: proiettato in anteprima mondiale l’8 settembre, Blonde ripercorre, con un’aura finzionale dovuta all’eredità letteraria della Oates, la vita di Marilyn Monroe, nel privato Norma Jeane Baker, dall’infanzia difficile legata all’abbandono del padre alla ribalta sugli schermi di tutto il mondo. Marilyn è stata, e si conferma oggi, l’icona più longeva della storia del cinema, il suo sguardo magnetico, l’attitudine infantile, quel neo puntato e le labbra disegnate dal desiderio dei suoi amanti. “Per [colpa di, ndr.] Marilyn, la donna più famosa del mondo, Norma Jeane divenne la più invisibile. Questo ci ha spinti a voler raccontare la sua storia”, ha sostenuto l’attrice Ana de Armas, al ruolo più importante della sua carriera.
Della ricchezza letteraria, Dominik è riuscito a rendere la cifra distorta della realtà, quel sentimento allucinatorio sofferto da Norma Jeane come condizione d’esistenza, e pena del contrappasso del suo essere Marilyn: oltre l’icona, divinizzata, osannata, abusata e fagocitata dalla collettività, c’è l’essere umano esposto al giudizio, alla tortura, all’umiliazione – avallata, il più delle volte – ingoiati dal mito pur di sentire amore fin dentro e sopra la pelle.
Disponibile dal 28 settembre su Netflix, Blonde è in concorso nella 79ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Blonde, Ana de Armas tra Norma Jeane Baker e Marilyn Monroe: una questione di “fame/a”
Norma Jeane Baker nasce il 1 giugno 1926 a LA. Ad occuparsi di lei, la sola madre Gladys (Julianne Nicholson), fortemente instabile dopo l’abbandono da parte del compagno, un nome rilevante nell’ingranaggio industriale di Hollywood. Dopo un evento traumatico, all’età di sette anni Norma viene affidata alla Los Angeles Orphans Home Society, dove rimarrà fino ai sedici anni. Marilyn arriva come intervento divino a sollevare le sorti di Norma Jeane, quando all’età di vent’anni la ragazza comincia a posare come modella pubblicitaria e costruirsi un nome fino alle luci della ribalta: è il 1950, e Marilyn Monroe figura, in piccola parte, in All About Eve (Joseph L. Mankiewicz). Nel 1953 è Rose Loomis nel thriller noir di Henry Hathaway Niagara e nello stesso anno viene lanciata come sex symbol in Gentlemen prefer Blondes e How to marry a Millionaire. Moglie, nel 1955, della stella del baseball Joe Di Maggio (Bobby Cannavale) e del drammaturgo Arthur Miller (Adrien Brody) dall’anno successivo, l’adattamento di Dominik tratteggia, con una cifra incontrovertibilmente finzionale quanto idealmente umana, ascesa e perdizione dell’icona più abusata di Hollywood, investendo l’opera filmica della beatificazione di Marilyn Monroe come santa martire, ridotta ai minimi termini da un ingranaggio infernale e corrotto, da uomini logori in posizioni al vertice, da un uditorio interessato esclusivamente alle torbide sensazioni viscerali e lascive suscitate dal personaggio. Il romanzo della Oates apre la strada al cineasta per un ritratto nobile di Norma Jeane, consumata dalle aspettative e dagli interessi di altri, a partire da pubblico e produttori certo, ma con una riflessione sulla condotta morale dei suoi affetti, sugli amanti che Norma sceglieva e Marilyn subiva. Il 5 agosto 1962 Marilyn Monroe muore per overdose di barbiturici: Norma Jeane e Marilyn si ricongiungono, in un episodio ancora avvolto dall’enigma.
La risposta di Dominik al femminismo premeditato: il compromesso fisiologico del divismo
Un amore scattato vent’anni fa, quello tra il regista, Andrew Dominik, e il romanzo di Joyce Carol Oates, Blonde:
È stato un colpo di fulmine. Ho letto il libro nel 2002, è rimasto nella mia mente. L’attrazione più grande è stata l’opportunità di mostrare gli effetti di un trauma infantile sulla vita adulta”
Con la trasposizione per lo schermo, Dominik ha cesellato l’immagine, elevando la fotografia a strumento di narrazione al pari della parola: Blonde prosegue per diapositive in movimento, un racconto materico fatto di sensazioni, carne, sofferenze viziate dall’icona che si profilano nell’uso sapiente del mezzo registico.
Non si tratta di un biopic, Blonde si impone maestoso come narrazione finzionale che, tuttavia, ripercorre cronologicamente la vita dell’attrice più conosciuta al mondo: la duplice drammatizzazione scaturisce dalla volontà di infondere credibilità al racconto interiore di Norma Jeane tanto quanto alla voce di Marilyn. Dietro l’acconciatura biondo platino, per cui la Oates muove a compassione il giudizio collettivo, c’è un essere umano teso incondizionatamente verso l’amore, in un racconto che mira ad esplorare non solo il rapporto dell’icona con le figure della sua vita – dalla madre ai compagni di vita, passando per il padre mai conosciuto – ma con i vertici di uno spettacolo corrotto, assetato di carne, lascivo e dimentico dell’essere senziente oltre i compromessi di facciata.
A dividere la critica, questo sentimento di empatia orientata e preconfezionata che la Oates e il regista plasmano costruendo una narrazione attorno all’impossibilità di puntare il dito contro una donna soffocata e costretta nel ruolo. All’ipotesi di una fisionomia femminista premeditata, Dominik ha risposto definendola una fisiologica conseguenza: la riduzione di Marilyn a corpo oggettificato, le ingiustizie subite, i fraintendimenti imposti hanno definito gli argini di un racconto che il regista ha ricreato servendosi di ciò che la memoria collettiva conosce da sempre, ma conformandolo alle esigenze narrative.
Il racconto di Dominik rifugge la patina aurea e celestiale del mito, lo evoca e lo decostruisce, lo santifica e lo condanna con un crudele, brutale realismo: Norma Jeane parla con il feto abortito, si avviluppa alle gambe dei gemelli Chaplin contorcendosi di piacere, è nuda quasi costantemente, senza vergogna, è stretta nelle mani del Presidente Kennedy mentre pratica un’indebita fellatio, è disorientata, ovattata dai barbiturici, indifesa nel sangue versato, nelle umiliazioni patite, negli stupri subiti. In bianco e nero, a colori, in 4:3 o 16:9, Marilyn Monroe è stata un nome, un volto, carne da dirigere, plasmare, disegnare, possedere nel corpo quanto nella storia, perfino per chi avrebbe dovuto esimersi dal farlo: Arthur Miller, il marito Premio Pulitzer, le giurò di non scrivere mai di lei, ma non mantenne la promessa.
Lasciamo che Marilyn riposi, ora. Non abusiamo più della sua luce.
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