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Bong Joon-ho

Innamorati di Bong Joon-ho: guida alla filmografia

Una guida al cinema di Bong Joon-ho

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20 minuti di lettura

Tarantino lo ama, il pubblico lo premia, la critica lo venera. Bong Joon-ho è la star del momento. In Corea del Sud, dove vive e lavora, è da anni una leggenda del botteghino. Ma ora, con la conquista di quattro premi Oscar, si è preso l’Occidente. Parasite è stato il film sudcoreano più visto di sempre, e in un paese dove la settima arte compete con l’industria dell’automobile è un risultato che non si può ignorare. Con soli sette film diretti, una SerieTV tratta dal più hollywoodiano (e meno riuscito) dei suoi lavori, Snowpiercer, due nuovi lavori in arrivo e una pioggia di riconoscimenti, Bong Joon-ho è il Martin Scorsese della sua generazione. Ecco come innamorarsene e perché la sua fama sta facendo del bene al cinema mondiale.  

Bong Joon-ho: di chi stiamo parlando

Bong Joon-ho

Bong Joon-ho è il figlio di nessuno. Questo il suo segreto, custodito gelosamente con i colleghi della Korean Wave: Park Chan-wook, Lee Chang-dong, Kim Jee-woon. Con un’industria cinematografica esplosa negli ultimi 25 anni, fondata sul well made, ossia i blockbuster studiati al dettaglio tra necessità di pubblico e Star System, Bong Joon-ho non ha padri da uccidere. Nessun Fellini o Antonioni da cui smarcarsi. In una produzione cinematografica priva dei grandi fantasmi del passato, si diventa presto sensibili alle suggestioni della cultura mondiale. Dai cineclub che frequenta a fine anni ’80, quando la Corea del Sud abbandona un sistema politico totalitario, Bong Joon-ho ne esce il nerd chiuso in stanzetta a studiare Taxi Driver. E infatti agli Oscar, trent’anni dopo, guarda Scorsese con gli occhi lucidi (e lo fotografa, come una groupie).

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In questi anni, sogna un cinema da arraffare, digerire, rivedere secondo i crismi di un’arte che appare senza limiti. Essere uno studente a Seul, soprattutto in una delle tre Università di punta, la triade SKY, non è però una passeggiata. In Corea del Sud gli universitari hanno responsabilità. Bong Joon-ho sa che fuori da quel mondo di influenze pop a cui tanto ambisce c’è un paese ferito. Come i suoi colleghi e coetanei, imbraccia una sfida. Così, da quando la Corea del Sud si è avviata in un lento e traumatico processo di democratizzazione, il cinema della penisola ha iniziato a fiorire.

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Presto, il racconto del paese ha affiancato i successi commerciali. Il blockbuster, in Corea del Sud, rivela sempre un paese in lotta con se stesso. Da Joint Security Area (2000), primo film ad alto budget e vero record di incassi, a Parasite (2019), il grande schermo per Bong Joon-ho e colleghi è una forma di terapia d’urto (una conferma nel successo di Squid Game). Per farlo, il cinema torna ad essere arte di massa. Come da noi ma negli anni ’60.

La cultura coreana avanza in un susseguirsi di ondate. Almeno dagli anni ’90 in poi. Se la pubblicità della Samsung non vi esce dalla testa è perché l’ultimo telefono del mega-conglomerato tecnologico sudcoreano segue le note dei BTS, gruppo K-pop da milioni di fan. La Corea del Sud è, per dirla semplice, sul pezzo. Anche al cinema, dove Bong Joon-ho traina una delle industrie più in salute al mondo. Il suo segreto? La natura Glocal: da un lato i riferimenti culturali alla società, vera protagonista dei suoi racconti, dall’altra il gusto globalizzato per l’intreccio di generi e stili. Il risultato è esemplare, e non accenna a esaurirsi.

Probabilmente hai già visto parasite

Parasite vince l’Oscar ma qualcuno non festeggia. Come Donald Trump. “And the winner is…a movie from South Korea (?)”, commenta dubbioso all’indomani delle premiazioni. Era Truffaut a sostenere che tutti al mondo hanno il proprio lavoro, più quello di critici cinematografici. Anche Trump a quanto pare. “Ridateci via col vento”, disse sprezzante. Di certo non aveva visto Parasite. Forse gli sarebbe piaciuto. Anche perché, ormai, per vedere personaggi innamorati del sogno americano bisogna andare in Corea del Sud. La famiglia di ricchi protagonista dell’instant cult di Bong Joon-ho si bagna dei sogni americani cresciuti nella retorica del miracolo oltre il fiume Han. Ma, spoiler, non fanno una bella fine. Anzi, i poveri parassiti gli fanno la festa, letteralmente.

Ma se siete qui è perché Parasite l’avete già visto, e probabilmente vi state chiedendo se tutto Bong Joon-ho sia così. In realtà no. Parasite è un arrivo scientifico, misurato, rivisto, di tutta una poetica. Quella sì, ricorrente. La commistione di generi e la dissoluzione di ogni aspettativa (Parasite è un contenitore di film e potremmo intuire i gusti di uno spettatore dalla scena che qui più ricorda) incontra uno stile mai così chirurgico.

Ad esempio: Bong Joon-ho è più turbolento di come l’abbiamo conosciuto in Parasite. Nelle scene d’azione muove la cinepresa assieme ai suoi protagonisti, con una tecnica che viene dall’action di Hong-Kong e che sovente causa mal di testa. Molto diverso da quanto visto in Parasite, dove l’azione passeggia mano nella mano a un carrello. Lì è la sceneggiatura a muoversi, e noi a seguire.

Guardate questa scena, da Snowpiercer. Poi tornate su Parasite. Il primo, è un film che, nonostante la sua funzione di avvicinamento di Joon-ho a Hollywood, non consigliamo proprio per una sceneggiatura maldestra, enfatica e ridondante.

Sempre un corpo a corpo è il finale di Parasite. Ma per compostezza e precisione – una figura si muove verso lo spettatore mentre una attraversa lo schermo, un carrello segue anticipa e descrive senza che nulla di imprevisto sporchi l’immagine -, siamo anni luce dal regista di Snowpiercer, e di tutto ciò che lo precede. In realtà, avviciniamo un suo collega in patria, qualche anno fa più noto di lui qui in occidente: Park Chan-wook, asceso alle cronache per lo splendido Old Boy.

Per arrivare a questo, Bong Joon-ho percorre la storia del cinema genere per genere. Li passa (quasi) tutti. Ogni volta con un obiettivo in mente: sovvertire le aspettative. Lo vediamo in Parasite, ma ci colpisce con forza nel suo primo vero successo, Memories of Murder (2003). In Italia, il film è arrivato in scia al premio Oscar. 17 imperdonabili anni di ritardo.

Quindi, Continua con Memories of Murder

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Titolo: Memorie of Murder (Memorie di un assassino)
Anno: 2003
Durata: 132 min.
Interpreti: Song Kang-ho, Kim Sang-kyung, Kim Roe-ho

Di certo, Memories of murder dimostra di non essere invecchiato. Tratto da una storia vera, racconta i disastrosi tentativi di un gruppo di detective alla ricerca di un efferato serial killer. Come vedremo anni dopo in The Host o in Mother, l’incompetenza delle figure istituzionali è al centro della produzione di Bong Joon-ho. A sorprendere in Memories of Murder è proprio l’assenza di un personaggio positivo. Nemmeno il grande detective giunto da Seul arriva a conclusione dell’enigma, in un susseguirsi di fallimenti che tolgono allo spettatore il piacere di una soluzione.

Di risposte mancate, la storia politica sudcoreana è piena. I metodi coercitivi della polizia, per non usare il termine torture, sono noti agli storici e a chi ne è sopravvissuto. Memories of murder li mette in atto proprio giocando coi protagonisti, tra cui spicca Song Kang-ho, attore feticcio del Korean Wave.

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Il noir e il thriller, senza un arresto, non sono tali. E infatti Memories of Murder non è né uno né l’altro, pur avendo tutto quello che serve per guidare i due generi verso nuovi lidi. Inoltre, non si darebbe questo film senza quella cinefilia dura e pura che Bong Joon-ho sa rimettere in azione. Ci inserisce tutto, persino Orson Welles. Alla fine, se ne esce sconsolati, convinti di aver seguito un gioco dell’oca senza premio. Ma dopo Memories of murderer il noir ha un sapore diverso.

I più appassionati amano discutere: meglio Parasite o Memories of murder? A voi la soluzione, sempre che anche in questo caso ce ne sia una.

Se non hai visto Parasite: rimandalo e guarda The Host

Bong Joon-ho

Titolo: The Host
Anno: 2006
Durata: 119 min.
Interpreti: Song Kang-ho, Byeon Hie-bong, Park Hae-il, Bae Doo-na

Parasite è un biglietto da visita. Eppure, potrebbe non essere la miglior stretta di mano con Bong Joon-ho. Un’alternativa si chiama The Host, e sorpresa sorpresa, è stato un successo record al botteghino. Anche in Europa ha avuto un suo discreto seguito, anche se il genere, un monster movie in tutto e per tutto, ha impedito a certa critica di superare i pregiudizi per scoprirne il profondo messaggio politico. Anche qui, il sovvertimento è totale. Il mostro del fiume Han (che già fa il verso alla tanto citata formula del miracolo del fiume) appare subito. Nessun mistero al riguardo, nemmeno per quanto riguarda la sua nascita, un inquinamento delle falde acquifere tratto da una storia vera.

Il riferimento è a un scandalo del 2000, quando Albert McFarland, un civile americano che gestiva l’obitorio della base militare americana a Seoul, ordinò ai dipendenti coreani di scaricare i rifiuti delle salme in uno scarico.

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Il mostro entra in campo correndo sulla baia, colpito da un sole da commedia in famiglia. Invece di optare per una fotografia che nasconda i limiti di una cgi imperfetta, Bong Joon-ho inonda di luce la scena. Il mostro è quello che appare. Si muove saltando, con la coda afferra, con la bocca divora. Ad avere segreti è invece il governo sudcoreano e la gestione americana dell’emergenza. Messa da parte la meraviglia dell’essere mutante inizia il vero film: una famiglia in cerca della figlia più piccola attraversa la città quarantenata da un presunto virus. C’è ancora Song Kang-ho, ma soprattutto torna l’occasione per colpire la società sudcoreana. La gestione dell’emergenza è ributtante. E rivisto oggi, The Host sfiora la perfezione per lucidità e intenti.

Un assaggio: questa scena, priva di spoiler, ricorda le ferite inferte dalla SARS nel sud-est asiatico. Oggi mette i brividi anche a noi.

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Ogni protagonista è uno squarcio sulla storia della penisola. Hee-bong, l’anziano, è l’uomo post guerra delle due coree. Ha lottato per crescere una famiglia in un paese per molto tempo tra i più arretrati del sud-est asiatico. Nam-il, invece, è il veterano delle rivolte studentesche anni ’80, dalla molotov facile è ora un alcolizzato senza impiego. Infine, la ragazza rapita dal mostro, Hyun-seo, è la nuova generazione nata nella democrazia e subito sacrificata al progresso senza fine. Il tutto produce una famiglia disfunzionale, in totale opposizione alla cultura neoconfuciana cara alla Corea del Sud.

Vedere The Host prima di Parasite spiega l’interesse di Bong Joon-ho per quello che molti chiamano hell Choson. Choson è il termine usato dalla Corea del Sud per definire la penisola. Hell è come la vedono le ultime generazioni. L’inferno Choson è un paese privo di mobilità sociale, dove il povero muore per una notte di tempesta mentre il ricco se ne giova per il cambio di temperatura. Proprio la scena della pioggia torrenziale in Parasite è dove Bong Joon-ho rimette mano alla passione per il monster movie; capace di raccontare, con un’impronta biblica, una tragedia umana.

Visto The Host, si torna a Parasite. E tutto si fa più chiaro.

Con cosa non iniziare: Snowpiercer

Bong Joon-ho

Titolo: Snowpiercer
Anno: 2013
Durata: 126 min.
Interpreti: Chris Evans, Song Kang-ho, John Hurt, Ed Harris, Octavia Spencer

L’abbiamo detto, lo ribadiamo: Snowpiercer è un approfondimento, non un punto di arrivo e meno che meno punto di partenza. Il film è il primo vero contatto tra lo Star System di Hollywood e Bong Joon-ho, come un cast del tutto eccezionale dimostra. Accanto all’immancabile Song Kang-ho, troviamo Chris Evans, John Hurt e Tilda Swinton. Alla produzione proprio l’amico e collega Park Chan-wook.

Il film adatta l’omonima Graphic Novel francese, peccando di una ricerca metaforica talmente già inscritta nelle premesse da stancare per l’inutile insistenza. Anche la regia di Bong Joon-ho fatica a sollevarsi, nonostante alcune sequenze davvero straordinarie (il video già inserito in articolo è una buona dimostrazione).

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Parliamo di un ottimo blockbuster e un buon film. Ma non di certo del miglior modo per conoscere Bong Joon-ho. Possiamo però inserire Snowpiercer nell’assoluta coerenza tematica della filmografia finora trattata. Anzi, a suo modo, ne è un perfetto corrispettivo grafico. Un bignami pronto all’evenienza. Non sorprende che Bong Joon-ho sia rimasto colpito dall’idea di un futuro apocalittico in cui i pochi sopravvissuti della specie umana vagano ininterrottamente su un treno diviso per classi. Se Parasite si delinea con avanzamento verticale, quasi una Divina Commedia in cui l’inferno è Choson, Snowpiercer segue la dinamica orizzontale di un treno attraversato da un rivoluzione di classe, con gli ultimi vagoni pronti a giungere alla testa.

Discorsi simili, e uguale approccio per un ideale viaggio nella filmografia di Bong Joon-ho, possiamo fare per Okja, del 2017. Secondo film con cast internazionale e caso storico per la prima partecipazione di un film Netflix al Festival di Cannes. Si aggiunge, e diversifica, un tema ambientalista di tutto interesse. Forse già in nuce alle premesse di Snowpiercer ma di certo meglio sviluppato.

Per continuare (ad innamorarsi): Mother

Bong Joon-ho

Titolo: Mother
Anno: 2009
Durata: 129 min.
Interpreti: Kim Hye-ja, Won Bin, Jin Ku

Con un inizio che non dimenticherete, Mother è il più fine tra i lavori di Bong Joon-ho. Sembra ritagliarsi uno spazio consono nella filmografia del regista, ma è anche tutt’altro. Protagonista è una storia d’amore morbosa, psicologicamente affascinante e difficile da inquadrare. Una madre, totalmente immersa nel ruolo, combatte una strenua battaglia legale per la difesa del figlio accusato di omicidio. Per premessa e utilizzo degli spazi pubblici, Mother sembra riprendere Memories of murder. Ma il film sfocia presto nel thriller fino a rifugiarsi in un luogo altro, quasi superiore alla realtà, come immaginato.

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La madre danza guardando in macchina e condivide l’inquadratura con il titolo. Mai Bong Joon-ho si era spinto a tanto, e difatti, per ora, questo film è un unicum. Un punto d’arrivo sospeso, che rinnesca l’opera del regista in un’atmosfera inedita ma già percorsa. Un riassunto perfetto ed estensivo in attesa del prossimo film.

Ora la sfida è superare Parasite. Che non sarà Via col vento, ci ha ricordato Trump, ma di certo ha già fatto storia. Ora Bong Joon-ho non è più il figlio di nessuno. Come Fellini dopo La dolce vita, serve . Il che, tra l’altro, renderebbe Song Kang-ho novello Mastroianni.


In copertina: Artwork by Madalina Antal
© Riproduzione riservata


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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