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C'è ancora domani copertina

C’è ancora domani, l’esordio alla regia di Paola Cortellesi è lucido e graffiante

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13 minuti di lettura

C’è una musicalità, nell’esordio alla regia di Paola Cortellesi, che non ha niente a che vedere con il suo commento sonoro. È la ritualità dei gesti, la frenesia dei passi, il cadenzare connettivo delle miserie quotidiane. La ricorsività del tempo di C’è ancora domani s’intona all’armonia di un percorso di autodeterminazione che comincia in una subalternità sistemica e si conclude nella maestosità di una frizione: quella tra vecchio e nuovo mondo. La disgiunzione ha bisogno di quel tempo, della sua routinizzazione, dei suoi picchi e dei suoi cali. Esplode dopo la violenza (domestica), anch’essa quotidianizzata e mai strumentalizzata; esplode nella spontaneità dell’incedere lento di una vita che all’improvviso si sveglia. Per amore, di sé e di un femminile tutto.

Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e in sala dal 26 ottobre, C’è ancora domani coreografa la storia di un’eroina quotidiana sullo sfondo di chi lotta per i suoi diritti. Nell’Italia post-bellica e pre-repubblicana, la Cortellesi inverte la luce dei riflettori, spostandoli dall’eccezionalità all’essenzialità, muovendo la battaglia per la propria emancipazione a partire da un istinto e da una solidarietà viscerale, disintermediata.

Mediante una polifonia mai retorica e sempre sincera, C’è ancora domani riesce nell’intento di raccontare la dignità di una donna comune, assunta a simbolo di un’intera generazione. Vessata, prevaricata, umiliata e malmenata. Paola Cortellesi omaggia un femminile non celebrato, inserendolo nel formalismo stilistico della tradizione -il neorealismo (rosa), la commedia all’italiana- e rimescolandolo di temi. Un prisma nostalgico traghettato alla modernità, guardato nei tempi di ieri, con gli occhi di oggi e senza presunzione di esaustività.

È la Storia in fieri, rimestata sullo schermo attraverso una comicità di spirito e una serietà d’intenti che esonda all’esterno della sala con quel tipo di straniamento disturbante, che vorremo esiliare fuori ma continua ad avvinghiarci a sé. Necessario, provocatorio e attualissimo.

Di cosa parla C’è ancora domani

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani

Il tempo di C’è ancora domani si apre su una data precisa. È il 14 maggio 1946 e, nella Roma che fermenta in mezzo alla confusione del proprio avvenire, vive una donna semplice, come tante altre: Delia. Sotto la superficie, in una casa che guarda agli spiragli del cielo dal basso più infero in cui si possa sprofondare. Madre di due figli maschi, che in campo entrano azzuffandosi e insultandosi, e di una giovane ragazza innamorata e desiderosa di fuggire da ciò che della vita ha potuto conoscere. Un padre dispotico e indolente e un nonno (Giorgio Colangeli) le cui urla riecheggiano, ilari e scottanti, da dietro una porta chiusa, a sintesi di un passato che continua a risuonare veemente nella drammaticità del presente.

Delia è Paola Cortellesi, tenerezza e dolcezza nel volto, naturale ironia nei toni. Si affaccenda con lavori saltuari, si prende cura della casa e delle umanità che la circondano. Non siede mai a tavola, è in corsa ininterrotta, seguita da una macchina da presa che ne emula movimenti e frenesie, fermandosi solo nei guizzi sfuggenti in cui la sua emotività inizia a mettersi in gioco. In mezzo a quel percorso, rituale, che piano piano ne plasmerà il coraggio.

Serva, incapace e totalmente inconsapevole. Non si immagina un futuro diverso perché così le è stato insegnato, non si considera un’individualità perché quella è la sua normalità, tiene duro perché è tutto ciò che può fare. Dal marito incassa insulti e percosse, dal suocero è redarguita costantemente: deve imparare a stare zitta. Eppure non parla mai.

Rimescolare il passato, bilanciandone le spinte

Paola Cortellesi ed Emanuela Fanelli in C'è ancora domani

L’attrice, regista e sceneggiatrice romana tratteggia per se stessa i contorni di una figura che non cede a facili sentimentalismi. Sa misurare i gradienti, arrotondare i registri della commedia e del dramma e regalare un’interpretazione intuitiva che, al netto di alcuni semplicismi, tocca con garbo le corde dell’emotività che aspira a strattonare. È abile nel circondarsi di chiaroscuri, ventagliando un ensemble di donne articolato e compendiato dalla personalità della sua amica più stretta: Marisa (Emanuela Fanelli). L’immagine filmica della Fanelli in C’è ancora domani non è solo il riverbero della sua connotazione pubblica – e per questo funziona molto bene – ma anche contraltare della protagonista. È una donna sarcastica, intelligente, solidale, indipendente e accompagnata da un uomo per bene, bilanciata da un legame dove il rispetto sembra essere pluridirezionale.

Nei colori di C’è ancora domani non ci sono solo donne abusate, non ci sono solo uomini iracondi e non ci sono solo matrimoni soffocanti. C’è, però, il sottotesto predominante di un patriarcato come dato di natura e di cultura: siamo nel 1946 e la subordinazione non può che venire messa in scena così trasversalmente, anche quando colta, con finezza, nelle sue sfumature cromatiche. D’altronde C’è ancora domani parla proprio di questo, accentrandosi intorno alla vita/manifesto di Delia e diluendosi con acume nelle singole traduzioni del femminile. 

Non è facile far bene la commedia e ancor meno la commedia amara, ma Paola Cortellesi non poteva che ripartire da ciò che conosce a fondo, e in cui è brava, per mitigare una storia giustapposta di umori. Accanto alla quotidianità di Delia con Ivano (Valerio Mastandrea), al prossimo matrimonio tra la figlia Marcella (Romana Maggiora Vergano) e Giulio (Francesco Centorame), e alle – deboli – storylines con un soldato americano e con un vecchio amante (Vinicio Marchioni), C’è ancora domani si aggrappa alla purezza disciplinare della commedia all’italiana per miscelare leggerezza e impegno. E riesce nel suo intento, non appesantendo mai la narrazione e strappando più sorrisi che lacrime, più riflessioni che pietismi.

C’è ancora domani asciuga la violenza fisica inseguendo slanci surrealisti, connota le parentesi più drammatiche con un uso contro-modulare degli inserti musical. La sospensione dell’incredulità disobbedisce al pathos del rappresentato, smorzandone forse maldestramente l’impatto ma declinandolo a un’allusività che nella sua regolarizzazione aspira ad essere più incisiva. Come a dire: nella continuità realtà-rappresentazione-reiterazione della brutalità di cui è vittima Delia, siamo sicuri possa esistere una scala di gravità?

C’è ancora domani, per fortuna

Paola Cortellesi in C'è ancora domani

C’è ancora domani, con il suo bianco e nero stilistico e il suo uso dissonante delle musiche, è un interessante e riuscito raccordo formale tra ieri e oggi. Lo è però, al di là del gusto e della fattura tecnica, soprattutto nello scheletro della sua storia. E la sua è una storia a due. Le sue protagoniste sono una mamma e una figlia. Marcella non risparmia la propria disapprovazione verso le scelte della madre, non si assoggetta alla sua passività. Ma poi rischia di rimanere fagocitata dalle stesse immoralità. Perché il maschilismo di quel presente è infettivo ed endemico, salvaguardato come la più sacra delle tradizioni.

Il calendario di C’è ancora domani culmina simbolicamente nel suo penultimo giorno: il 2 giugno 1946. La notte che lo precede vede una sequenza di volti femminili alternarsi sullo schermo mentre si guardano allo specchio, vestendosi e svestendosi dei loro abbellimenti estetici e appropriandosi della propria coscienza. La domenica che lo ospita è testimone della morte allegorica del vecchio mondo, il lunedì che lo succede è il nucleo pungente in cui il racconto s’incendia. Paola Cortellesi realizza un buon film perché tiene stretta la sua onestà, colpisce perché compassa gli stadi emotivi e raggiunge il suo fine perché sa sequenziare la sua personale aspirazione narrativa. Diretta, ma non banalizzata.

C’è ancora domani è la cronaca di un passato comune, disadorno e tristemente assimilabile alla normalità del tempo. La regista decide di dargli nuova vita, spolverando le complessità omesse dai fasti gloriosi del nostro cinema più illustre. Si immerge in un periodo storico da cui prende le distanze e provoca lo spettatore rievocandone la persistenza. Multiforme, intaglia con lucidità il suo obiettivo.

Per farlo si serve di un espediente semplice, di una misteriosa lettera che nel ritmo tensivo del montaggio alternato finale dà il suo meglio, ma altrove indebolisce il testo. Delia la legge, la butta, la riprende e da quella sembra finalizzare ogni passo. Il climax di C’è ancora domani, con rispettivo colpo di scena, funziona meglio nell’intenzione significante che nel suo schematismo, ma a conti fatti va bene lo stesso. E quindi con il tempo, con il ritorno continuo di situazioni uguali, con le frustrazioni e le botte, Delia inizia a spostare l’orientamento del suo agire.

Acquista qualcosa per sé come primo atto di emancipazione, risparmia dei soldi nascondendoli al marito, pianifica un atto ribelle. Spezza la routine e impara dalla figlia qualcosa di necessario per se stessa. Pensa al futuro di lei rovesciandone le finalità. Diventa universale perché anti-eroicizzante, eroica perché anti-eccezionale. Autentica perché mossa dall’ideale più genuino di amore. Un amore che alla propria figlia decide di lasciare in dono la scelta, l’integrità e l’educazione. E quindi l’idea più vicina alla libertà, in nome di un reciproco riconoscimento e di una lotta per cui dovrà continuare ad esistere sempre, necessariamente, un altro domani.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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