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Civil War – 11 settembre, anno non specificato

14 minuti di lettura

Essere apolitici è l’atto più politico che un cittadino possa fare. “Io non voto, tanto sono tutti uguali” oppure “io non voto, perché tanto non cambia mai nulla” sottolinea l’abisso che nel mondo separa chi sta bene da chi necessita invece di vedere i propri bisogni più basilari assicurati: non schierarsi vuole dire avere da mangiare, avere un tetto sopra la testa, avere la possibilità di curarsi e, implicitamente, non curarsi della situazione di chi invece non ha accesso a nessuna di queste cose. Non c’è niente di più catastrofico di un giovane che si dichiari apolitico.

Fa perciò riflettere che Alex Garland, già regista degli stra-premiati Ex Machina (2014) e Annientamento (2018), abbia più volte ribadito di voler tenere la politica fuori dal suo ultimo film Civil War, nelle sale italiane dal 18 aprile. E non è nemmeno casuale che la campagna marketing si sia rivelata più divisiva del film stesso.

Civil War, eravamo stati avvertiti da Ex Machina

Civil War

Di Civil War ciò che più sta dividendo l’opinione pubblica sono i poster: pare che la famosa A24, casa di produzione del film, si sia avvalsa dell’utilizzo di Intelligenza Artificiale per molte delle locandine promozionali; si tratta di scorci con monumenti e famosi simboli architettonici statunitensi, devastati dal conflitto fantapolitico narrato da Garland. Peccato che nessuno di questi luoghi compaia all’interno del film.

La questione è complessa e non è questa la sede per ragionare sul ruolo dell’IA all’interno dell’industria cinematografica, ma le cose da tenere presenti sono due: l’opera d’arte è definitivamente entrata nell’epoca della sua producibilità tecnica – ben oltre la riproducibilità analizzata da Walter Benjamin -, è un dato oggettivo.

Quanto questo accelererà il nostro precipitare verso un baratro di assoluta mercificazione solo il tempo potrà decretarlo. Quante persone perderanno il già scarso lavoro che il settore creativo offre, anche questo, sarà il tempo a dircelo, ma intanto l’IA sembra essere vicina a sfondare definitivamente nell’industria cinematografica statunitense, sia nella sfera indie (vedasi il caso di Late Night with the Devil) che in quella ben più preoccupante dei grandi marchi (la sigla di Secret Invasion).

La seconda questione, per tornare a Civil War, è quanto facilmente il film sia stato oscurato dalle controversie legate all’IA. Entriamo nel merito di questa sua apparente apoliticità.

Civil War, Country Road, Take Me Home

Kirsten Dunst in una scena di Civil War

In Civil War, i protagonisti, un gruppo di reporter di guerra capitanati dalla navigata Lee (Kirsten Dunst), si trovano ad affrontare un pericoloso viaggio da New York a Washington D.C. attraverso il paesaggio desolato di un’America spaccata in due: da una parte i ribelli delle Western Forces e della Florida Alliance, dall’altra il governo federale della capitale, comandato da un presidente al suo terzo mandato. Fra cittadine rase al suolo, campi profughi e costanti bombardamenti, l’aspetto più solido di Civil War è senza dubbio l’atmosfera che riesce a catturare: l’apocalisse è tangibile, definita e ha la forma di bandiere americane strappate e guerriglia urbana.

Eppure, queste scene di violenza non sono che una parte estremamente marginale del film: la componente action è diretta con grande maestria, ma arriva dopo un’ora dai ritmi decisamente più dilatati, concentrata per lo più sui rapporti umani fra i suoi personaggi, alla The Last of Us (2013). E proprio come The Last of Us gioca con lo straniamento del pubblico nel vedere un’America devastata, Civil War indugia sull’idea che una guerra come quella raccontata al suo interno non si sia mai vista. Eppure di spietate immagini belliche ne abbiamo viste eccome.

Quest’ultima considerazione può essere interpretata in due modi: il primo è che l’America sia ormai collegata in maniera indissolubile a due delle sue pagine più nere, l’11 settembre 2001 (09/11/2001 nella datazione americana) e l’assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Le immagini delle Torri Gemelle avevano al loro tempo provocato un enorme effetto domino di rappresentazioni cinematografiche: La 25ª Ora (2002) di Spike Lee, La Guerra dei Mondi (2005) di Steven Spielberg e Cloverfield (2008) nacquero tutti dal bisogno di esorcizzare le distruttive paure degli Americani o dal cercare di scendere a patti col dolore che l’intera nazione continua a provare a vent’anni da quella immane tragedia.

Proprio come fu per 09/11, anche January 6th, sta iniziando ad aggirarsi ad Hollywood scuotendo le sue catene da fantasma della democrazia: Civil War è il primo film americano autenticamente post-Trump. Post- non nel senso di “dopo,” ma di “modificato da“: l’America non ha di certo superato il magnate e le sue manie di grandezza, sta invece scontrandosi con la sua nuova idea di democrazia, essa stessa rinata come “post-Trumpiana”.

Alex Garland condanna il condannare: Civil War è congegnato proprio per non prendere parte alle scaramucce politiche da cui gli Stati Uniti sono stati divisi negli ultimi 10 anni, per inneggiare alla fratellanza e cercare di sanare lo strappo che sta straziando la nazione nel nome di qualcosa che “ci renda tutti Americani.”

Che in Civil War si parli di Western Forces, composte da California – stato a maggioranza Democrat – e Texas – a maggioranza Republican – non è un caso; ad un certo punto, Lee accenna alla ragazza di cui è mentore del “Terribile Massacro Antifa”: per come la frase è scritta, risulta impossibile capire se l’Antifa, celebre gruppo antifascista statunitense, abbia subito o perpetrato il massacro. L’intero film si sviluppa cercando di riconciliare il popolo diviso ed esporre la tossicità delle estremizzazioni, finendo per porsi nel modo più democristiano possibile.

Ovviamente il messaggio è condivisibile, ma arriva anche, come spiegato all’inizio, da una voce che evidentemente può permettersi il lusso di non prendere posizione. Questo suo atteggiamento super-partes non solo nuoce alla credibilità autoriale e critica di Garland, ma viene anche miseramente abbandonato quando il film rende palese la sua chiara matrice antifascista: il presidente non-democratico, che ha esteso la possibilità di rimanere in carica a tre mandati e che ha sciolto l’FBI (tutte cose promesse o millantate da Trump), viene chiaramente dipinto come un dittatore. Civil War sembra contorcersi su sé stesso cercando di far combaciare questa trama così spudoratamente antifascista con le sue pretese di apoliticità, rendendo deboli e mutilate entrambe.

I’m afraid of Americans, I’m afraid of the world

Una scena da Civil War di Alex Garland

Così cantava David Bowie negli anni ’90, poco prima del coinvolgimento della NATO nelle guerre Slave che straziarono i Balcani per tutto quel decennio e che segnarono il primo vero utilizzo a scopo offensivo di bombardamenti e schieramenti di truppe da parte di quasi tutti gli stati membri del Patto Atlantico. Il paragone fra l’album Earthling (1997) di Bowie e Civil War è notevole, considerando che anche Garland è di origine britannica. La differenza sostanziale è che il primo condanna gli Stati Uniti in toto, il secondo cerca di non condannare partiti interni al paese. Come accennato prima, Garland cerca quel qualcosa che ci renda “tutti americani”: far parte della più grande nazione al mondo.

Ogni personaggio in Civil War, dai reporter Newyorkesi imbottiti di sostanze ai militari del Sud assetati di sangue, parlano a un certo punto di “riunificare la nazione, di tornare ad essere i migliori, ad aver il vecchio splendore.”

Il punto sta proprio qui. Di quale splendore stiamo parlando? Quello che ha illuminato i cieli di Belgrado? Quello che ha svegliato nella notte gli indios del Guatemala, presi nelle loro case da truppe fasciste supportate dagli Stati Uniti? Quello delle magnanime razioni di cibo concesse in casse sfavillanti ai bambini di Gaza, dilaniati da una fame che il governo statunitense non fa niente per placare? O forse, si parla dello splendore Americano dei corpi neri linciati nel Sud, appesi per i genitali ed esposti a marcire negli anni ’50, ancora spada di Damocle razziale per i tanti cittadini statunitensi, i cui diritti e la cui legittimità vengono costantemente messi in dubbio?

Poco importa che Garland non condanni l’amministrazione post-fascista di Trump o quella ridicola e complice di Biden, ciò che è veramente grave è che non prenda posizione su quest’idea di America grande, buona e giusta. Che sotto le macerie degli States ci possa ancora essere qualcosa di onesto e democratico fa ridere già come premessa. Le sequenze action enormi, assordanti, sporche e violente sono dirette magistralmente e sono la suprema estetizzazione della guerra: war-porn del peggior tipo, quello che rende eccitante la morte e coinvolgente lo spargimento di sangue in nome della democrazia.

E le sequenze finali di Civil War, in cui le truppe ribelli sfondano i cancelli della Casa Bianca, all’interno della quale è arroccato il presidente, non possono che riportare alla mente l’undici settembre. No, non l’undici settembre 2001, quello del 1973, quando i militari di Augusto Pinochet, supportati dagli Stati Uniti d’America, entrarono ne La Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago del Cile, e uccisero a sangue freddo il Presidente Salvador Allende. Quando gli Americani capiranno che il loro 09/11 non è più grave di quello che il loro governo ha inflitto al Cile e quando un film Hollywoodiano racconterà la storia di Allende con dignità e onestà, allora, e solo allora avremo tutti il lusso di non schierarci.

Civil War è un film amorale: se Jacques Rivette fu offeso dall’ormai celeberrimo “Carrello di Kapò” nel suo articolo Dall’Abiezione, chi scrive è offeso dalla natura pornografica del film di Garland. Quando ogni urlo, ogni schizzo di sangue si pongono come eccitanti, non importa la fattura pregiata della fotografia, delle interpretazioni o della regia: importa solo che queste immagini possono essere scioccanti e disturbanti solo per chi continua ad evitare gli orrori di Gaza e scopre d’un tratto che certi incubi lo spaventano solo quando li vede applicati a suoi simili.

Tacere davanti alla violenza si manifesta in molti modi: non votare, pensare solo a se stessi, piegarsi alle richieste di censura della propria emittente pubblica, oppure fare un film che invece di criticare la natura stessa del sistema politico Americano, auspichi una produttiva pace delle due parti così che possano tornare a collaborare nella distruzione del resto del mondo. La situazione è critica ovunque nel mondo, e film come Civil War, codardi ed impotenti, passano senza lasciare traccia alcuna.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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