«The Double», di Richard Ayoade è un magistrale esempio di adattamento cinematografico di un’opera letteraria. Il fatto che la trasposizione sia un processo laborioso e un obiettivo difficile da realizzare lo dimostra la vicenda del retroscena della sceneggiatura, che uno dei più abili sceneggiatori di Hollywood dei giorni nostri, Charlie Kaufman, nel 2003, stava cercando di scrivere per l’adattamento cinematografico del saggio Il ladro di orchidee di Susan Orlean. Da quella vicenda ne uscì fuori un film che rappresenta proprio il processo dell’adattamento cinematografico di un’opera letteraria dal titolo Adaptation.
Sebbene la trasposizione cinematografica sia di per sé complessa, essa è sempre esistita nella settima arte, tanto che uno dei premi dell’Academy va alla sceneggiatura non originale, premio riconosciuto agli adattamenti cinematografici di contenuti narrativi e concettuali espressi in origine attraverso altri media.
Ad ogni modo, nonostante la difficoltà oggettiva di questo processo di “riscrittura”, il regista de Il Sosia Richard Ayoade non si è lasciato scoraggiare, e nel 2013 ha realizzato un film il cui soggetto è ricavato da uno dei più noti e più complessi romanzi di Fëdor Dostoevski.
La scelta di adattare proprio questo romanzo, ci pone di fronte a un nesso peculiare tra forma e contenuto. Se l’adattamento filmico di un’opera letteraria è la creazione di un doppio unico, per cui il contenuto dell’originale letterario viene trasferito e riproposto in un diverso medium espressivo, conservandone tracce identitarie dell’originale, allora scrivere una sceneggiatura filmica tratta da un’opera letteraria vuol dire creare un sosia. Che altro è un sosia, se non una riproduzione diversa di un medesimo? Nel caso de Il Sosia quindi, la forma stilistica con cui è realizzato il film (l’adattamento) e il contenuto che la pellicola racconta si sovrappongono, stanno in un nesso simmetrico, per il quale il film è il sosia del romanzo, ed entrambi hanno per contenuto una particolare rappresentazione dell’esser sosia.
Il topos letterario del doppio, di cui una celebre espressione drammatica ci è restituita nel nostro tempo dal romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk, si lega quindi allo stile dell’adattamento cinematografico, al doppio formato dall’opera letteraria e dal film che la riadatta.
«Il Sosia», da Dostoevskij in poi
Che vuol dire esser sosia? Come funziona il rapporto tra una persona e il suo sosia? A rispondere a queste domande è rivolto il romanzo di Dostoevskij. Con lo stile filosofico che gli è proprio lo scrittore russo vuole realizzare una semantica dell’esser sosia, riuscire a mostrare, attraverso il linguaggio narrativo, di cosa parliamo quando pensiamo al sosia.
La configurazione che Dostoevskij dà della figura del sosia, non è però quella del rapporto tra due individui identici, ma riporta il rapporto al fenomeno psicologico della scissione dell’Io. Il sosia è quindi la proiezione psicologica del protagonista del romanzo, che vede se stesso per come vorrebbe essere, per come non è, ma sarebbe in grado di essere.
Jakov Petrovič Goljadkin, timido, tendente alla sottomissione e all’apatia, nutre nel suo inconscio attitudini opposte, che proietta nel suo alter ego, che è identico a lui, cioè al contempo uguale e diverso in quanto doppio. Il gioco filosofico su cui Dostoevskij costruisce il meccanismo psichico della scissione dell’Io ha una doppia veste: da un lato si basa sulla nozione di identità che significa A = A, per cui sono due i termini che vengono detti identici e quindi al contempo distinti, tuttavia nel romanzo l’opposizione delle attitudini caratteriali vive nell’unità della singola persona come sua contraddizione interna che si risolve nella proiezione esterna delle caratteristiche caratteriali che il protagonista non riesce ad incarnare a pieno e per le quali ha bisogno di inventare un altro esterno per rappresentarsele; dall’altro lato Dostoevskij gioca sul fatto che un individuo può essere in un modo e anche il contrario e quindi il sosia di sè stesso.
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Scindersi dall’io?
Il fenomeno psicologico della scissione dell’io viene affrontato da Freud con il suo metodo metapsicologico e psicoanalitico soprattutto in Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917. Il padre della psicanalisi ritiene che la scissione dell’io sia un meccanismo di difesa della coscienza che si attiva nell’Io quando c’è un conflitto ad esso interno, tale meccanismo è propedeutico alla fase critica nella percezione di sè stessi.
La scissione avviene quindi per proteggere la psiche dalla sua autodisgregazione. Il conflitto che vive Golijadkin è quello tra modi opposti del suo stesso essere. Umiltà e furbizia, timidezza e arrivismo, sono queste le oppositive sfumature caratteriali che coabitano nell’Io di Goljadkin, opposizioni che rendono la sua coscienza un rovello per sè stesso al punto da condurlo alla pazzia.
Il Sosia è stato letto in chiave clinica da psicanalisti come Otto Rank e Nikolaj Osipov, i quali hanno rilevato nel ritmo del romanzo le fasi di una paranoia progressiva. Molto interessante è concentrarsi sul fatto che il nome Goljadkin rimanda a parole russe che indicano l’esser nudo e mendicante. La solitudine e la miseria del personaggio lo induce a fare grandi monologhi interiori finchè egli arriva infine a scambiare il soliloquio con finti dialoghi. Questo misunderstanding interiore tra soliquio e dialogo fittizio si rifà a una certa idea del pensiero che trova le sue origini in Platone, per il quale, come ci dice Hannah Arendt, il pensiero è inteso come il dialogo interiore di ciascuno con se stesso (eme emautō, in greco).
Lo sdoppiamento dell’io non è quindi per Goljadkin un io-tu, ma piuttosto un io-sè. È il conflitto tra queste due determinazioni della sua coscienza che porta infine il personaggio al ricovero in un centro di igiene mentale. Come dice la parola russa dvojnik, il sosia di Golijadkin non è una persona che egli incontra e che è tanto simile a lui da potervelo scambiare, ma è una proiezione di un certo io in un altro io diverso e autonomo, come due coscienze che formano un’unica figura che è quella dell’autocoscienza di Golijadkin medesimo in conflitto con se stessa. L’esperienza del sosia non è quindi l’incontro di due persone simili, ma l’esperienza della scissione e quindi di una proiezione autoriferita della coscienza del personaggio che inventa un suo doppelgänger per cercare di giungere alla verità della certezza di se stesso a partire dal conflitto dei contrari aspetti caratteriali che coesistono nella sua interiorità.
Richard Ayoade alle prese con «il Sosia»
La pellicola-adattamento del romanzo di Dostoevskij prende avvio con un’atmosfera pesante ai limiti del grottesco. Questa Stimmung cupa e ansiogena è acuita dallo stupore del protagonista Simon (Jesse Eisenberg) per essere sempre esposto all’umiliazione e alla vessazione, la quale appare inizialmente frutto del sistema in cui vive più che di un reale accanimento delle persone con cui intrattiene relazioni nei suoi confronti. Questo aspetto ci riporta più che alla concezione esistenziale di Dostoevskij, per cui l’assurdo è che non ci si rende conto della vuotezza dell’esistenza (si pensi alla sezione del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, in cui la conclusione è che non c’è nulla da inquisire se non appunto il mistero che è un nulla stesso per l’uomo), alle atmosfere kafkiane per cui nel sistema societario moderno la condanna avviene senza colpa e senza cognizione di chi la subisce e quindi “misteriosamente” («fa parte di questo sistema che uno sia condannato non solo senza colpa, ma anche senza cognizione» pensa K. nel Castello); come fa notare Walter Benjamin in un saggio su Franz Kafka, il tema del limite della comprensione accomuna i due grandi autori.
Nell’adattamento cinematografico del Sosia questa sintonia intellettuale tra Kafka e Dostoevskij è esposta alla perfezione: Simon è condannato a essere vessato e umiliato, senza capire il perché e senza meritarlo e questo è il mistero di cui la sua coscienza è ignara. Ma perchè Simon non capisce come mai vive questa misteriosa condanna? Davvero essa dipende dal sistema o forse dal suo modo di (non) relazionarsi?
Ciò su cui Ayoade insiste molto e che cerca di rappresentare nella pellicola è forse l’aspetto decisivo de il Sosia: l’incapacità di Simon/Golijadkin di comunicare. Infatti il protagonista riesce a comunicare solo con sè stesso, ed è questa l’isteria paranoide dell’uomo moderno.
Simon non riesce a capire che le ragioni delle sue umiliazioni e vessazioni risiedono nell’incapacità di comunicare e di pensare con gli altri che lo caratterizza. Proprio per cercare di supplire a questa incapacità che lo rende idiota (in senso etimologico di idion, come colui che pensa solo al proprio e in proprio) Simon innesca il meccanismo mentale della scissione del suo Io, proiettando fuori di sé un sosia che riesce a comunicare e quindi a non essere soggetto a umiliazioni.
Ayoade vuole farci vedere quanto sia fondamentale comprendere che ognuno di noi non solo vive con gli altri, ma è pensato dagli altri nel suo essere. E il fatto di non essere in grado di comunicare con gli altri, cioè non avere una rete di relazioni, ci porta alla solitudine e alla nevrosi, oltre che al non comprendere niente della vita e di sè stessi. L’incapacità di comunicare di Simon è dovuta all’incapacità di costruire legami sociali, perchè è dal linguaggio che usiamo con gli altri che acquisiamo il nostro, parlando con loro. Simon che non parla con nessuno davvero, soprattutto con Hanna la ragazza di cui è innamorato, non ha la forza linguistica di liberarsi dalle umiliazioni di cui è vittima inconsapevole, si sente irreale, però ha la forza interiore di creare un sosia in cui vorrebbe trasformarsi proprio perchè possiede la capacità di comunicare attraverso la quale sa rendersi immune alla vessazione. L’aspetto interessante è che Ayoade mostra come il dialogo interiore abbia una funzione catartica e collaborativa dell’io con il sé. Simon e James si scambiano favori, l’uno aiuta l’altro “sostituendolo” in ciò che riesce peggio, creando un armonioso convivere di qualità differenti che formano un individuo perfetto sotto tutti i rispetti. Iconica in questo senso è la scena dell’appuntamento con Hanna, che vuole uscire con James (il sosia) e si ritrova Simon guidato attraverso auricolari come un moderno Cyrano de bergerac. Questa collaborazione però, è vissuta a sua volta come una vessazione da Simon, che comunque resta inesorabilmente buono e abile sul lavoro, ma al contempo incapace di comunicare.
Il Sosia è la storia di ognuno di noi, dell’uomo moderno che combatte contro la sua tendenza alla chiusura in se stesso che lo costringe all’incapacità di comunicare con gli altri e quindi ad esporsi a soprusi e umiliazioni, ma il film di Ayoade vuole dirci di più raccontando il progresso dell’io che lavora su stesso e arriva a maturare conoscendo il suo sè e a superare il conflitto interiore che lo logora. L’ultima sequenza del film rappresenta una lotta all’ultimo sangue tra Simon, sempre più consapevole di se stesso, e il suo stesso conflitto interiore, che si conclude con il raggiungimento della certezza di sè stesso come “una persona unica”.
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