Nella nostra guida alla filmografia di Refn avevamo immaginato una possibile evoluzione stilistica del regista danese dopo il debutto seriale, Too Old To Die Young, che consideriamo tuttora il suo capolavoro. In un certo senso, Copenhagen Cowboy, nuovo progetto presentato a Venezia 79 e in streaming su Netflix dal 5 gennaio, pur servendosi di neon, synth e pose plastiche a tutto spiano presenta delle interessanti variazioni sul tema.
Siano esse contestuali o germi di un mutamento ce lo dirà solo il tempo, fatto sta che Copenhagen Cowboy ha tutta l’aria di essere un esercizio di stile e forse anche per questo risulta nel complesso disordinato e poco coeso. Riavvolgiamo il nastro e cerchiamo di capirci di più.
Un’analisi di Copenhagen Cowboy, a partire da Too Old To Die Young
Per sviscerare appieno Copenhagen Cowboy è particolarmente utile metterla a confronto con la serie che l’ha preceduta, Too Old To Die Young. Sia i loro punti di contatto che quelli di divergenza, infatti, fanno emergere i tratti caratteristici di questo secondo esperimento seriale e ci aiutano a capire cosa ha funzionato e cosa, invece, poteva essere gestito diversamente.
Innanzitutto, in Copenhagen Cowboy torna lo sviluppo incidente di due trame principali, una focalizzata sull’antieroe e l’altra sul suo rivale. Si tratta, rispettivamente, di Miu (Angela Bundalovic), una donna dotata di poteri fuori dall’ordinario e venduta come portafortuna umano, e Nicklas (Andreas Lykke Jørgensen), un inquietante giovane che abita in una grande villa coi suoi genitori e custodisce, intatto, il cadavere della sorella Rakel (Lola Corfixen).
Come Martin in Too Old To Die Young, Miu è un personaggio solo e silenzioso che segue una propria legge del giusto. Il suo atteggiamento è però più spontaneo: la paura, la rabbia e la determinazione che prova gliele si possono leggere negli occhi, il che la rende meno ambigua del solito e apre alla possibilità di empatizzare con lei.
Sorprendentemente, l’ambientazione privilegiata da Refn in Copenhagen Cowboy non è la città: Miu si muove soprattutto tra i boschi e le campagne, imbattendosi in ristoranti a neon che si affacciano su strade desolate ed entrando in palazzi circondati da pianure spettrali. Si passa da una giungla urbana a una letterale, popolata da maiali affamati che divorano carne umana e uomini che grugniscono, punto estremo di un cinema che condanna i soprusi a opera del genere maschile con un approccio più divertito.
Ancora: in Copenhagen Cowboy il soprannaturale e l’onirico diventano dominanti. Refn si lancia in una narrazione totalmente sopra le righe, che accosta esseri alieni e vampireschi a guerre tra gang. Nel far ciò, inverte lo schema di Too Old To Die Young: se lì il nocciolo della questione stava nell’incontro tra i protagonisti, culminato nel sangue e seguito dall’ascesa dell’Angelo della Morte, qui il soprannaturale è presente sin da subito ed è il motore delle vicende ma manca un confronto vero e proprio tra Miu e Nicklas/Rakel.
Il climax viene rimandato a un domani che tuttavia la serie, rivolta a un pubblico di nicchia e dunque poco in linea con la brama di crescita infinita di Netflix, sicuramente non vedrà. Il finale è talmente aperto da rendere questa stagione un mero prologo che guarda al futuro ma intanto si muove su strade già ampiamente battute. Al contrario, Too Old To Die Young, sebbene anch’essa irrisolta e cancellata, offre un’esperienza di visione comunque soddisfacente perché poggia su una struttura narrativa pensata e consapevole, che sa quali cerchi chiudere e quali tenere in sospeso.
Copenhagen Cowboy mostra un Refn più superficiale e ridondante
La principale accusa rivolta alla produzione di Refn è di essere superficiale. Questa critica un po’ semplicistica non tiene conto dell’abilità del regista di ribaltare le specificità di generi come il gangster e le arti marziali (spesso in chiave femminista) e ricontestualizzarle in un universo visionario e personalissimo, ricco di tableaux vivants che senza quel tanto contestato ritmo lento non riuscirebbero allo stesso modo. Lo stile informa gli intrecci, e nel farlo li eleva. Anche questa è sostanza.
Eppure, è difficile difendere Copenhagen Cowboy. Certo, è interessante notare il ritorno sporadico della macchina di presa a mano che avevamo imparato a conoscere nei primi film del regista; la fotografia è come sempre curatissima, la synthwave di Cliff Martinez è una garanzia e le sequenze di combattimento sono le migliori mai dirette da Refn. Ma c’è poco o nulla al di là della sperimentazione stilistica, che oltre a essere nel complesso poco riuscita schiaccia le idee entusiasmanti alla base del progetto.
Soprattutto nei primi episodi, ad esempio, Copenhagen Cowboy straborda di dissolvenze in nero, al punto da spezzare continuamente il ritmo della narrazione. Per riprendere il confronto di prima, in Too Old To Die Young Refn si serviva di dissolvenze incrociate iconiche – una su tutte, quella sulle note di Mandy di Barry Manilow, un capolavoro per i sensi che qui non riesce a replicare (e, palesemente, vorrebbe). Anche le panoramiche a 360 gradi sono onnipresenti e spesso talmente gratuite da esasperare. Non c’è quella misura tra forte estetismo e trama che caratterizza i suoi lavori precedenti, ma solo il piacere ottuso e maniacale di provare e riprovare determinate soluzioni registiche.
Sia chiaro: Too Old To Die Young è forse un qualcosa di irripetibile, la forma più compiuta della poetica refniana, un prodotto che forse si può solo eguagliare. Ciò non giustifica, però, tutti gli errori di Copenhagen Cowboy, che speriamo quantomeno serva al re dei neon per trovare un nuovo equilibrio nei prossimi lavori.
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