Dietro ogni bravo regista c’è intrattenimento; dietro a un autore c’è invece una vera e propria intesa con lo spettatore. Regia, mezzo cinematografico, poesia, teatro, letteratura. La cifra stilistica di Wes Anderson ha dimostrato, nell’ormai pieno della sua carriera, di essere molto più che semplice svago. Non chiamatela solo estetica. O, almeno, prima di fare ciò, guardate tutti e quattro (non solo La meravigliosa storia di Henry Sugar) cortometraggi usciti su Netflix alla fine del mese scorso.
In ordine, dopo il mediometraggio con Benedict Cumberbatch, Ben Kingsley e Ralph Fiennes presentato a Venezia80: Il cigno, Il derattizzatore e Veleno. Quattro cortometraggi che ufficializzano il recente acquisto dei diritti di Roald Dahl da parte di Netflix, di fatto incatenandoli a sé. Ma anche – e soprattutto – quattro corti di un Autore (rigorosa la “A” maiuscola) tra i più attivi oggigiorno. Wes Anderson vede il mondo e racconta attraverso Roald Dahl (che nell’universo fittizio del regista ha le sembianze di Ralph Fiennes) il compendio artistico dello scrittore: fasi della sua vita narrati, viceversa, attraverso i fondamenti di Anderson.
La vita di Henry Sugar è senz’altro straordinaria, e insieme ad Asteroid city rappresenta appieno “lo spirito libero del cinema americano”, come ci piace definirlo, o altrimenti, la kaufmaniana dissezione del racconto cinematografico operata da Wes Anderson. Il cigno mostra una storia di soprusi, che diventano martirii di una società intera. Il derattizzatore narra il sogno americano dal punto di vista di un ratto: sembra Ratatouille ma manca (per fortuna) il suo bel finale. E Veleno, una scoperta felice, dimostrazione della profondità concettuale dietro all’ambigua e statuaria facciata dell’imperialismo occidentale.
Il cigno
Due bulli e un bullizzato si incontrano nella sconfinata campagna inglese. Un cigno troneggia sul suo nido regale, i bulli lo uccidono. Dichiarato il decesso. L’essere umano vince ancora su tutti i fronti. Il secondo cortometraggio di Wes Anderson, dopo La meravigliosa storia di Henry Sugar, racconta un mondo purtroppo vicino e attuale, che non ha mai smesso di riformarsi, nelle sue forme più sadiche e tetre.
Il bullismo narrato da Roald Dahl, e trasposto dal regista americano, prende le sembianze di un cigno – anche simbolo del paese di provenienza dello scrittore, il Regno Unito – e di un ragazzo inamovibile, Peter Watson, guarda caso anche il narratore onnisciente. Sembra quasi una biografia partigiana quella messa in scena da Wes Anderson, che fa de Il cigno un simbolo di fierezza di fronte all’ingiustizia perpetrata dai bulli (ideale condiviso anche da Dahl). Perché la scusa dei grandi non vale più, le frasi fatte («Vabbè, sono ragazzi», «Se succede un’altra volta avvisami») sono scontate e inutili di fronte all’insensatezza scomposta della brutalità efferata.
Al centro, colpisce però, ancora una volta l’Anderson che scompone la scena in un palcoscenico teatrale, dove è il narratore in primis l’artefice decostruttivista. Il mix di tecniche non può che aiutare: frontali soggettive ai piedi delle rotaie, effetti speciali e sonori, animazioni a passo uno. La summa del cinema di Wes Anderson che diventa la summa della teatralità stessa.
Il derattizzatore
In un villaggio inglese di fine anni ’40, un meccanico e un giornalista ascoltano il folle piano di un “uomo-ratto” (in inglese rende di più: rat-man), uomo che di lavoro fa lo sterminatore di topi, incaricato dall’ufficio di igiene del governo per cacciare i ratti dalla cittadina.
Continua, anche nel terzo cortometraggio di Wes Anderson in ordine prodotto da Netflix e Indian Paintbrush, la destrutturazione della forma cinematografica compiuta dal regista texano. Sembra di vedere, nel Derattizzatore, i primi sperimentalisti sovietici che giocano con il mezzo, scomponendo e destrutturando la scena in funzione di un racconto, prima di tutto, ideologico.
L’uomo-ratto (Ralph Fiennes) è descritto da Roald Dahl come se fosse esso stesso un topo, con occhi gialli, denti sporgenti, unghie che assomigliano ad artigli, e andatura felpata. Una metafora tipica alla Dahl, che amava raccontare le ossessioni dei suoi personaggi incarnandole nelle loro caratteristiche fisiche (si pensi a Willy Wonka, mischiato in tutto e per tutto con il suo cioccolato). Wes Anderson accentua questo elemento. L’uomo-ratto, in una scena in cui i protagonisti scommettono addirittura sulle sue capacità assassine, viene impersonificato letteralmente dal topo che sta per essere ucciso. Del resto, è ancora il sadismo tipico visto ne Il cigno: l’essere umano che uccide i propri simili. Un messaggio semplice da parte di Wes Anderson, quanto riproposto in maniera efficace e nella sua accezione priva di didascalismi.
Veleno
C’è sempre un lato A e un lato B della verità. Soleva dire Pablo Trincia nel podcast Veleno, omonimo del quarto e ultimo cortometraggio della tetralogia di Wes Anderson sui racconti di Roald Dahl. Lo stesso podcast, anche se narra una vicenda completamente diversa, ha un doppio senso: raccontare la verità sporca dei pregiudizi che imbevono la società occidentale. Dove si nasconde la disinformazione, si cela anche il veleno dell’umanità, quello in grado di sterminarci lentamente, ma inesorabilmente.
E così, anche il Veleno del regista americano. Un colone inglese in India si accorge di avere un serpente altamente velenoso nel letto, il suo socio chiama dunque un medico, di origini bengalesi, che cerca di capire come salvargli la vita. Si parte dunque con l’immobilismo: l’uomo è sul letto con in grembo un libro, la minaccia incombe, il serpente potrebbe mordere da un momento all’altro.
È quindi un’inattività, prima di tutto caratteriale e poi attoriale di Benedict Cumberbatch, che anticipa poi quello che verrà dopo (un autentico capovolgimento dei fatti), e che racconta una storia ben più lunga e complicata. Ovvero, il dinamismo degli indiani, fermi e bloccati, dal conservatorismo razziale della Corona. Per questo Wes Anderson, in Veleno, abbandona solo in parte la meccanica scenica dei primi cortometraggi; ora, la storia è di per sé tutta consumata in una stanza, o semplicemente in un letto.
La minaccia è pressante, insistente, imprevedibile, lascia a pensare su una moltitudine di verità scomode. Qual è il rapporto tra coloni e colonizzati quando c’è in gioco la vita stessa; quale sarebbe la reazione dell’uomo nel caso il serpente lo mordesse; e, soprattutto, alla fine, viene anche da chiedersi (Wes Anderson, però, aiuta nella risposta con indizi fin troppo chiari a nostro parere) chi è veramente la minaccia strisciante, che si insidia nei giacigli delle persone. Dove si nasconde il Veleno che ci circonda?
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