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David Fincher

Innamorati di David Fincher: guida alla filmografia

Viaggio nel cinema di Fincher: cosa vedere, cosa evitare, perché amarlo

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21 minuti di lettura

Il dibattito attorno al nome di David Fincher riguarda da sempre una sua possibile o meno definizione di autorialità, ma con undici film all’attivo e due serie tv (più una terza, l’animata Love, Death & Robots di cui è unicamente produttore) è riuscito a dimostrare non solo di possedere una tecnica eccellente, ma di essere in grado di utilizzare la stessa per veicolare una propria poetica. In quasi trent’anni di carriera, infatti, ha realizzato prodotti esteticamente impattanti e tecnicamente ineccepibili per inscenare riflessioni peculiari e determinate.

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David Fincher, di chi stiamo parlando

David Fincher

Si dice che Fincher sia un regista contemporaneo che parla del contemporaneo e infatti ha portato in scena e indagato difetti, paranoie e debolezze della società odierna. Il suo sguardo non è certo positivo e ottimista e dai suoi film emerge costantemente il ritratto di un’America che ha perso o dimenticato il proprio sogno e che di conseguenza è diventata sempre più sfiduciata, arrabbiata e disillusa.

Si dice che Fincher realizzi sempre dei thriller e, di fatto, ogni storia raccontata è strutturata su questo genere, che si tratti di un’indagine poliziesca, di un’inchiesta giudiziaria o di un incubo mentale che prende forma. È imprescindibile in questo senso la lezione hitchcockiana di costruzione della suspense e fondamentale è il ricorso alla tematica dell’inganno.

Menzogna, finzione e paranoia sono tratti comuni della società fincheriana, governata in maniera inevitabile dal capitalismo sfrenante, ne è succube e ne porta segni profondi. I personaggi sono vittime di questo sistema e rincorrono un’immagine americana mitizzata che si rivela essere solo apparenza. I killer raccontati da Fincher sono il frutto marcio di questa logica, persone disturbate il cui malessere è generato soprattutto dal sistema che non riescono ad abitare. I vari Tyler Durden, Mark Zuckenber, Amy Dune, sono figure solitarie, sole, che nutrono disprezzo per la società a cui non riescono ad appartenere, ma in cui anelano spiccare. È una società dominata da nichilismo, disincanto e da una violenza che assume varie forme: fisica come in Fight Club, mentale passivo-aggressiva come in The social network, criminale e senza volto come in Zodiac o Seven.

David Fincher2

La filmografia di Fincher è un continuo alternarsi tra prodotti sperimentali e intenzioni commerciali e in questo senso è possibile vedere Zodiac come uno spartiacque ideale. Raggiunto con l’opera il livello più alto in termini di forma, nella seconda parte della sua carriera si dedica soprattutto alla ricerca del riconoscimento di pubblico, di critica, di premi. In questo contesto è da inquadrare anche il sodalizio con Netflix per cui ha prodotto e in parte diretto serie tv di grandissimo successo: House of Cards e Mindhunter e per cui ha realizzato il suo ultimo film dopo sette anni, Mank che è riuscito a conquistarsi le statuette per la miglior fotografia e per la miglior scenografia agli ultimi Oscar 2021.

Per non risultare eccessivamente prolissi, abbiamo evitato di trattare opere che probabilmente lo avrebbero meritato. Le vogliamo menzionare velocemente: Fight club è di sicuro l’opera cult di David Fincher, un gioiello degli anni ‘90 in grado di portare a schermo le atmosfere più eversive del romanzo di Chuck Palahniuk. The Game è per molti il suo manifesto stilistico e poetico, un gioco di ruolo estremo in cui la tematica dell’inganno la fa da padrona. Panic room è puro divertimento tecnico, un thriller godibile costruito attraverso movimenti di macchina estremi e impossibili. Millenium è la versione patinata dell’omonimo film svedese già tratto dal romanzo di Stieg Larsson. Le due opere si somigliano in maniera a volte pedissequa, ma la storia è affascinante e ci sarebbe piaciuto vedere realizzati da Fincher anche i successivi due capitoli.

Con cosa cominciare: Seven

David Fincher-Seven

Anno: 1995

Durata: 127’

Interpreti: Brad Pitt, Morgan Freeman, Gwyneth Paltrow, Kevin Spacey

È legittimo considerare Seven l’esordio cinematografico ufficiale di David Fincher, un film in cui la volontà di inserirsi nella tradizione del thriller viene superata dalla spinta a innovarla. Tra pessimismo, falsità e rabbia violenta, Seven introduce alle tematiche e agli elementi visivi che diventeranno una costante nei film successivi del regista.

Il soggetto è affascinante: un’indagine di ispirazione biblica vede un serial killer che uccide seguendo la morale dei sette peccati capitali, a indagare troviamo un poliziotto prossimo alla pensione e un giovane rampante smanioso di fare carriera. Fincher sembra riflettere sulla dualità bene e male attraverso una rappresentazione in cui l’opposizione manichea tradizionale diventa sempre più impossibile. La morale è uno degli elementi cardine della storia, irrazionalmente rivendicata dal serial killer, logicamente attribuita ai poliziotti, mestamente assente dall’intimo di ognuno. Nessun personaggio è totalmente buono o cattivo, ognuno offre una doppia lettura e spesso a prevalere è il lato oscuro personale.

Il killer di nome John Doe (nome usato in gergo giuridico statunitense per indicare un uomo la cui reale identità è sconosciuta o segreta) appare preludio alla riflessione che si ritroverà dieci anni dopo approfondita e universalizzata in Zodiac. Il serial killer diventa un pretesto, una parvenza fisica da dare a un concetto impersonale e indeterminato come quello di male. Male che è possibile riscontrare ovunque, non solo nella mente deviata del serial killer psicotico. Una sceneggiatura cupa e oscura prende corpo in un mondo che sembra esistere soltanto in interni bui e inquietanti virati su luci blu, verdi e rosse. Quando i protagonisti si trovano all’esterno sono bagnati da una pioggia torrenziale e senza fine. Solo nel finale irrompe un sole caldo e arancione che colora l’intera scena, ironico contraltare a una fine senza assoluzione per nessuno.

Menzione speciale e doverosa per i titoli di testa che settano immediatamente le atmosfere oscure, torbide, destabilizzanti del film, mostrano particolari che torneranno nello svolgersi delle indagini e sono in definitiva preludio perfetto per il racconto disturbante che ne segue. La musica dei Nine Inch Nails anticipa il futuro felice sodalizio con Trent Reznor e Atticus Ross, membri della band che a partire da The social network si occuperanno delle colonne sonore di tutti i film di Fincher.

Con cosa proseguire: Zodiac

David Fincher-Zodiac

Anno: 2007

Durata: 157’, director’s cut 162’

Interpreti: Robert Downey Jr., Jake Gyllenhaal, Mark Ruffalo, Chloë Sevigny, John Carroll Lynch

Probabilmente il film più classico di David Fincher, nonché il più divisivo, attinge dalla storia americana per portare in scena il racconto di uno dei serial killer più famosi di sempre. Il film risulta perfettamente impostato e girato ed essendo il finale noto ai più, tutto si concentra sulla messa in scena, sulla maniera di raccontare l’indagine e sulla costruzione dell’intreccio. Il ritmo non presenta momenti di stanca e la suspance mantiene viva l’attenzione. La seconda parte risulta forse più lenta, ma un senso di paranoia avvolge il procedere delle indagini e la scena finale, oltre a quella della cantina del proiezionista, producono momenti di puro terrore glaciale, una sensazione di paura irrazionale.

Percorrendo la strada segnata da Seven l’indagine poliziesca non si conclude con un lieto fine. Il killer, è cosa nota, non verrà identificato, il male trionfa rimanendo a piede libero senza nome e senza volto. Una metafora utile per parlare di una società deviata che non riserva nulla di buono a chi la abita. I protagonisti della storia sono un giornalista, un detective e un fumettista, succubi di quella società, delle proprie ossessioni e dei propri vizi perderanno ognuno qualcosa di sé durante e a causa dell’indagine.

Si diceva che Zodiac è il film più diviso di Fincher capace di polarizzare in maniera estrema i pareri di critica e pubblico. Con quest’opera Fincher realizza il suo film più scolasticamente perfetto, non una sbavatura, non un cedimento, risulta esaltazione del formalismo e di una visione tutta mentale dell’azione cinematografica. Per questo è da molti considerato il miglior film del regista, ma c’è anche chi, pur riconoscendo l’oggettiva maestria, la taccia di prolissità ed eccessiva lunghezza. Quello che manca a Zodiac è l’universalità, la capacità di parlare a tutti, di piacere a chiunque e di non scontentare nessuno, qualità che invece possiede un’opera come The social network.

Per innamorarsi: The social network

David Fincher-The social network

Anno: 2010

Durata: 121’

Interpreti: Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake, Armie Hammer, Max Minghella, Brenda Song, Rashida Jones, Rooney Mara, Dakota Johnson

Premiato con la migliore sceneggiatura non originale ad Aaron Sorkin, miglior montaggio a Kirk Baxter e Angus Wall e miglior colonna sonora a Trent Reznor e Atticus Ross è possibile definire The social network come un capolavoro. Il sodalizio Aaron Sorkin e David Fincher risulta vincente nel creare un’opera che mette d’accordo tutti, il grande pubblico generalista, la critica specializzata, il fan più accanito e sostanzialmente lo fa tenendo incollato lo spettatore per due ore ad ascoltare gente parlare intorno a un tavolo. The social network è un film verboso, da Aaron Sorkin, d’altronde, non ci saremmo aspettati altro che una sceneggiatura piena di parole, ma Fincher riesce a infondere un ritmo serrato e coinvolgente grazie a un’abile gestione del montaggio e un intelligente ricorso a flashback frequenti e mai gratuiti. Il film va al di là di ogni definizione di genere e si presenta come un’inchiesta giudiziaria prestata a un racconto biopic, costruita con le regole del thriller.

Incentrando il racconto sulle diverse cause giuridiche che coinvolgono Mark Zuckenberg, Fincher ci racconta la storia della nascita di Facebook, ma pone al centro i rapporti tra le varie figure coinvolte indagando soprattutto la loro personalità. Attua una ricerca nell’animo dei protagonisti e porta in scena i loro sentimenti, continuando comunque a restare molto più un film celebrare che sentimentale, mostrando e non nascondendo la propria progettualità e schematicità.

Il film può essere visto come la rivincita del protagonista fincheriano, solitario e perdente, ma una rivincita amara perché dietro le vittorie economiche e di prestigio lo Zuckenberg del film rimane sempre e comunque una persona sola. The social network apre la strada al cambio di rotta della riflessione di Fincher.

Nella prima parte della sua filmografia, infatti, la riflessione sulla società e sulle logiche viziate del capitalismo erano trattate con carica nichilista ed eversiva, ora invece sembra che il regista sia sceso a patti con lo stato di cose attuale, accentando che la società si sia assestata soprattutto sul conformismo, sulla bramosia di potere, sulla conquista di successo. Il protagonista è un egoista, invidioso, insicuro che frequenta Harvard e Facebook è il suo lasciapassare, la dimostrazione del suo valore, della sua genialità.

È un discorso che prescinde dal denaro, al protagonista non importa nulla della ricchezza, è tutta una questione di prestigio, di posizione, di presenza, ma Fincher lo mostra come un fallito misogino anche dopo essere diventato uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo e lo fa mostrandoci le sue cadute personali, affettive e sentimentali.

Occasione mancata: Gone girl

Anno: 2014

Durata: 149’

Interpreti: Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris

L’opera che insieme a Fight club fa dell’inganno il vero centro della sua narrazione. C’è più di un punto di contatto tra i due film, ma pur tornando a parlare di conformismo, mediocrità, menzogna della società capitalistica, Gone girl risente del già citato cambio di rotta nella visione e analisi della società da parte di Fincher.

Il film è ambientato nella media borghesia americana di provincia e a essere scandagliate dall’occhio del regista sono le sue logiche interne e le regole di sopravvivenza. La coppia al centro della narrazione è vittima del capitalismo avido e feroce: la perdita del lavoro conduce a una vita monotona nella provincia anonima a cui si sommano le aspettative sociali, la frustrazione personale e un’amante che fa capolino quando la passione ha lasciato il posto all’indifferenza se non al disprezzo. La moglie scompare e il maggior indiziato risulta essere il marito. Ad essere analizzato è prima di tutto il matrimonio e attraverso questo Fincher rappresenta la finzione di rapporti, l’egoismo e l’avidità del singolo.

Da qui SPOILER.

La chiave del film sta tutta nel monologo di Amy Dunne, quando il film si ribalta e l’inganno è svelato.

Amy Dunne è una donna che fin da piccola è vittima delle aspettative familiari e sociali, nulla appare reale in lei, la sua esistenza è una costruzione. Infatti decide di tornare dal marito quando, vedendolo in televisione, riconosce che è disposto a prendere parte alla propria finzione. L’azione è perfettamente inquadrabile nella logica del film, ma c’è qualcosa che non soddisfa. È il trionfo della maschera, della bella facciata borghese a favore di telecamere, ma da Fincher ci saremmo aspettati altro, la vittoria del ribelle, lo smascheramento della finzione. Il ritorno di Amy Dunne depotenzia la carica eversiva che avevamo intravisto nelle sue intenzioni.

Come può una caparbia, autoritaria e per certi versi anarchica Rosamund Pike avere come più grande aspirazione quella di essere riconosciuta parte della più piccola e insignificante borghesia provinciale americana? Fincher riesce a far schierare lo spettatore con l’antagonista della storia, con la cattiva, ma la grandezza del film si perde con il depotenziamento della carica distruttiva della donna, la sua aspirazione all’omologazione accondiscendente risulta impossibile da accettare.

Con cosa non iniziare: Il curioso caso di Benjamin Button

David Fincher-Il curioso caso di Benjamin Button

Anno: 2008

Durata: ‘166

Interpreti: Brad Pitt, Cate Blanchett, Tilda Swinton

Film tratto dall’opera di Francis Scott Fitzgerald, nominato a tredici premi oscar, vincitore di quelli per migliore scenografia, miglior trucco e migliori effetti speciali, amato e apprezzato dal pubblico. È l’opera da cui sconsigliamo di partire a chi si vuole approcciare a Fincher regista, anzi è un capitolo che riteniamo lecito anche ignorare. Costruita appositamente per toccare le corde emotive dello spettatore Il curioso caso di Benjam Button è un’opera subdola. Fincher si abbandona al desiderio di consacrazione commerciale confezionando un film che presenta tutte le caratteristiche per essere definito come blockbuster di successo, ma niente più.

La storia è quella di un bambino nato vecchio che percorre la vita ringiovanendo. Un racconto di formazione ad ampio respiro storico che inizia negli anni ‘20 e attraversa l’intera storia americana. Lo sceneggiatore, Eric Roth, è lo stesso di Forrest Gump di Robert Zemeckis e infatti la logica emotiva di presa sul pubblico è la medesima. Ogni elemento che poteva risultare disturbante viene epurato, così da collocare il racconto in un immaginario fantastico che si scontra con la pretesa di ambientazione storica messa in campo.

Costruito tramite flashback la storia si forma per episodi, alcuni più riusciti di altri, qualcuno eccessivamente patinato, romanticizzato. L’espediente del diario è classico del genere, la donna in fin di vita aumenta la portata sentimentale dell’opera, il riferimento all’uragano Katrina è praticamente gratuito. Il finale è di sicura commozione, ed è la cosa che più fa arrabbiare, perché il film è costruito proprio come una trappola in cui è impossibile non cascare.

L’estetica e la fotografia sono indubbiamente ammirevoli, il film è un prodotto ben costruito, bello da vedere ma che non lascia niente, se non il ripianto per le ore perse nella visione. Fincher che si allontana dal suo nucleo tematico e stilistico non mostra cuore in un’opera che richiederebbe di essere basata soprattutto su quello.

In copertina: Artwork by Madalina Antal
© Riproduzione riservata


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Chiara Cazzaniga, amante dell'arte in ogni sua forma, cinema, libri, musica, fotografia e di tutto ciò che racconta qualcosa e regala emozioni.
È in perenne conflitto con la provincia in cui vive, nel frattempo sogna il rumore della città e ferma immagini accompagnandole a parole confuse.
Ha difficoltà a parlare chiaramente di sé e nelle foto non sorride mai.

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