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Dead Silence

Dead Silence rievoca il perturbante della pediofobia

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8 minuti di lettura

Il 2022 corona i quindici anni dall’uscita di Dead Silence, elogio al perturbante nell’inanimato firmato da James Wan nel 2007. In una costellazione di cromatismi desaturati che traducono le algide tinte del blu e del grigio affiora la poesia di un horror che rende i burattini detentori di un’esistenza maligna. Così Billy, pupazzo dalla maschera conturbante, rievoca il fantasma della ventriloqua che lo aveva portato al successo nella foschia della piccola cittadina di Raven’s Fair, Mary Shaw. La filastrocca che scrive il leitmotiv del film annuncia così una delle paure più familiari nell’immaginario fobico: la pediofobia.

Attenti a Mary Shaw dagli occhi pazzi, non aveva figli, ma solo pupazzi, e se per caso nei vostri sogni appare, non dovete mai, mai, gridare.

In questa formula si racchiude l’antica paura delle bambole, dei burattini e dei manichini, impronta irrazionale della percezione disturbante di qualcosa di estremamente familiare e simile all’uomo. Il burattino incarna così il doppio, l’estensione corporea e psicologica del ventriloquo che ne muove le asticelle. Lo stesso termine, ventriloquo, deriva dall’unione delle parole latine venter (addome) e loqui (parlare), a indicare una presenza fantasma che comunica attraverso un altro corpo. Così un’antica leggenda evolve in una maledizione omicida in Dead Silence, alzando il sipario su una perturbante estetica cimiteriale.

Dead Silence: il silenzio che uccide

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Una notte di pioggia e un interno domestico accolgono l’arrivo di un misterioso pacco per una coppia di sposini. All’interno si trova Billy, pupazzo da ventriloquio dall’agghiacciante sorriso dipinto di rosso. Quella stessa notte, Lisa, moglie di Jamie dalla raffinata somiglianza con Mia Farrow in Rosemary’s Baby, viene uccisa dall’ambigua presenza demoniaca che possiede Billy.

La scena è preceduta da un agghiacciante silenzio, che scrive il tocco di classe di Wan nella costruzione dell’angosciante omicidio. Solamente il ritorno di Jamie nella sua cittadina natale, Raven’s Fair, potrà far luce sulla mitologia dell’antico fantasma di Mary Shaw e sulla sua vendetta. Dead Silence si adorna così di una cornice gotica, in una ritualità esecutiva che gioca sul silenzio come suggestione mortifera.

Il silenzio è la caratteristica peculiare delle bambole e dei burattini, trasposizioni umane inanimate a cui manca la voce. Loro sono killer silenziosi, portavoci del sottogenere cinematografico delle Killer Dolls che si nutre dell’inquietudine generata dall’ambiguità. Rappresentano il raccapricciante, l’estetica creepy che non ha nulla in sé di dichiaratamente pericoloso, ma che evoca una sensazione ambivalente, permeata sulla paura di quello che potrebbe succedere se solo quelle bambole si animassero.

L’eredità del perturbante

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Ecco che allora torna alla memoria il termine coniato da Freud a indicare qualcosa percepito come familiare ed estraneo al tempo stesso. Un antico cimelio di una tradizione psichica umana che però è stato rimosso dal soggetto perché ritenuto disturbante. La Storia insegna infatti che le bambole hanno da sempre rappresentato una riduzione in miniatura delle persone, un concentrato di verosimiglianza umana in cui incanalare pensieri, emozioni e attività.

Così in Dead Silence Mary Shaw voleva che la sua anima sopravvivesse dopo la morte nei suoi burattini: un atto d’amore disturbato, che mescola vita e morte in una creatura meccanica. In quel passaggio di anime si nasconde però anche la sopravvivenza delle pulsioni sotterranee adombrate nel profondo della psiche. A tal proposito, dunque, riecheggia l’eredità di un film del 1978 diretto da Richard Attenborough, che quattro anni dopo vincerà il Premio Oscar per Gandhi.

Si intitola Magic la pellicola che catalizza l’attenzione sul rapporto ambiguo e duale tra Corky (Anthony Hopkins) e il suo pupazzo da ventriloquo, Forca. In questo caso, una parte della personalità malata di Corky trova sfogo nell’espressione incensurata del suo pupazzo. Il suo alter ego incarna il limbo dove non c’è più scissione tra reale e fantastico, tra vita e magia, tanto da diventare esemplificativa la frase del tassista a Corky in una scena del film: Lei somiglia un sacco a lei stesso”.

L’ambivalenza inquietante del doppio

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La pediofobia affonda dunque le sue radici in un confronto speculare, in cui l’uomo si riconosce e si spaventa nel suo alter ego inanimato. Bambole e burattini, da oggetti in cui rilasciare scientemente parte della propria personalità, diventano creature maligne da cui prendere le distanze. L’idea del doppio si deforma davanti a uno dei loro aspetti più conturbanti: la fissità di uno sguardo vitreo, che inquieta nell’attesa di un possibile movimento.

Proprio lo sguardo è un altro cardine dell’architettura di Dead Silence, sin dalla prima frase di Lisa alla vista di Billy: “Gli occhi sembrano umani”. Gli occhi, scrigni dell’anima, sono il dettaglio fisico che più di tutti rivela un’esistenza altra nel burattino, privato della voce conferitagli dal suo ventriloquo. James Wan gioca saggiamente sull’estetica dello sguardo, accattivandosi giochi di luci e ombre, inquietanti lampi di luci rosse e rilanciando al simbolo sempiterno dello specchio, tanto caro al maestro Dario Argento.

Le zone d’ombra della psicologia domestica

Nel suo viaggio psicotico, la pediofobia (più nello specifico pupafobia nel caso dei burattini) si accosta alla coulrofobia in un trick finale che omaggia l’eredità di It di Stephen King. Tutte queste branche fobiche si racchiudono sotto il disturbo più ampio dell’automatonofobia, della paura di tutto ciò che è strettamente affine all’aspetto umano.

Dead Silence si nutre così di una linfa narrativa sempre vitale, perché porta il terrore nell’intimità domestica in una forma ambivalente di paura. A quindici anni di distanza, le creature inanimate di Mary Shaw rivivono in una spirale di vita e morte intrisa di misticismo e si appellano alla psicologia del doppio su cui Magic ha incanalato la dualità del perturbante.


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Classe 1996, laureata in Comunicazione e con un Master in Arti del Racconto.
Tra la passione per le serie tv e l'idolatria per Tarantino, mi lascio ispirare dalle storie.
Sogno di poterle scrivere o editare, ma nel frattempo rimango con i piedi a terra, sui miei immancabili tacchi.

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