“Che piaccia o no, la vita si muove velocemente, a differenza della fotografia”.
Sin dall’infanzia Diane Keaton ha collezionato ritratti, istantanee di volti oscuri e marmorei, tracce di esistenze che nascondono altri segni, come a sperimentare un proprio metodo, una semiologia dell’essere in apparenza. Difficile fare i conti con il suo sguardo, con l’ossessione di fossilizzare il tempo e indagare lo scarto tra la realtà e la sua rappresentazione, tra le pose di scena e la modulazione del proprio lessico vitale, definito dal contrappunto, dalla cabaletta, dal riso squittente.
Tutta l’anima di Diane Keaton fa i conti con l’immagine che ha trasposto sullo schermo. Ogni pellicola potrebbe essere frazionata, smontata, sino a restituire singoli fotogrammi, primi piani del suo volto dolce, lievemente scavato, con il sorriso aperto al mondo, gli occhi grandi e vispi proiettati in un altrove cosmico, privo di condizionamenti e preconcetti.
Diane Keaton: l’essere in movimento
Oltre a essere un’attrice brillante, poliedrica e irrequieta, Keaton ha attraversato il corso di Hollywood con la grazia della re-invenzione. Con il tratto delle fotografa pour cause, che cristallizza tanto gli attimi lieti quanto gli scivoloni del sistema, schierandosi di buon grado dalla parte “sbagliata” (ha difeso Woody Allen dalle accuse di molestie: “È stato costruito un caso su qualcosa di mai accaduto”), piegando a proprio uso la rivoluzione dell’immagine (è una star di Instagram, tra politica, moda, ricordi nostalgici), e l’hybris crossmediale dell’industria odierna (suo è un episodio di Twin Peaks, padre delle serie “liquide”).
Il fortunato incontro con Allen segna l’inizio della sua narrazione pubblica: icona di stile, ragazza retro-chic, maschietta seducente, di un’intelligenza lieve e fuori canone. Una narrazione dove lo schermo è anche “sguardo” su scenari in ombra, come specchi anamorfici che riflettono deformando. Musa, la chiamano. Non un ruolo ancillare ma compresso, predefinito. Come se ispirare bastasse a rendere il suo palpitante dinamismo, l’ansia di ricerca di un’unità conoscitiva identificata con la vita personale e un percorso artistico da ricordare, nell’ansia quasi spasmodica di non lasciare tracce, di consentire al personaggio di sovrapporsi all’io.
Le possibilità espressive esperite da Diane Keaton rivelano piuttosto un’attitudine all’azione. Un’ecletticità voluta, studiata per consegnare al pubblico immagini eternate, infinite tessere del suo mosaico interiore. Oltre Woody Allen c’è la solitudine di Looking for Mr. Goodbar (coodiretto con Richard Brooks nel 1977), l’algida fragilità della Kay Adams de Il Padrino (Francis Ford Coppola, 1972). Ogni variazione è un segno, la spia di un desiderio di sincerità basata sull’essenza, sulla paura che la vita possa rivelarsi una menzogna, nient’altro che una recita.
Ecco allora tre pellicole in cui Diane è sé stessa e altro, in perenne equilibrio tra immagine e reale.
Spara alla luna, Alan Parker, 1982
Un viaggio intimo e dolente nella crisi di coppia, in cui il disfacimento della middle class statunitense si accompagna all’indagine sui sentimenti umani. Gli echi bergmaniani appaiono mitigati dal dialogare pungente, da una lentezza colma di azioni vacue, ripetute, come la sequenza finale al campo da tennis, in cui la distanza tra George (Albert Finney) e Faith (Diane Keaton) è ormai definitivamente incolmabile. Memorabili gli sguardi di Keaton, i gesti ora piani ora rapsodici, capaci di condensare l’ineluttabile.
La tamburina, George Roy Hill, 1984
Dall’omonimo romanzo di John le Carré, un film d’amore e azione in cui un’attrice britannica (Diane Keaton) viene arruolata dal Mossad per catturare un terrorista palestinese. Controversa e dai tratti antitetici (pasionaria, utopista, in bilico tra fame di sesso e desiderio di gloria), la protagonista compendia pregi e debolezze delle spy stories anni Ottanta, viziate da stereotipi di genere e da un’ingiustificabile faziosità. Keaton, in coppia con Klaus Kinski, alza il livello sul piano recitativo.
La stanza di Marvin, Jerry Zaks, 1996
Una commedia psicologico-drammatica che avvita attorno a sé la ricostruzione degli affetti e dei legami di parentela. Il dolore della perdita, della composizione della difficoltà, procede in parallelo a battute agrodolci e a tentativi goffi e umanissimi di una nuova comprensione. Si avverte la lezione di Mervyn Le Roy, di Leo McCarey, mentre Diane Keaton e Meryl Streep incarnano la propensione agli smacchi, al rovello e allo strazio che la vita comporta.
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Un articolo prezioso, di raffinata sensibilità, che aggiunge valore e dettagli al percorso artistico di un’attrice straordinaria. Rintracciando con accuratezza tutte le sfaccettature di una carriera segnata dalla poliedricità istrionica che ha visto l’attrice cimentarsi nei generi più diversi, anche se il suo nome viene sempre associato a quello di Woody Allen. Ringrazio npc magazine e per questa opportunità ri/creativa di grande spessore.
Grazie Leonardo per il tuo bel messaggio, siamo contenti che l’articolo di Ginevra Amadio ti sia piaciuto. Alla prossima!