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Django, un duello di tradizione e innovazione

11 minuti di lettura

Si è conclusa la mini-serie Sky creata da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli e curata artisticamente da Francesca Comencini.
Con la giusta distanza di tempi e quella dilatazione di fruizione che consente di fermare quanto visto e introiettarlo con più assennatezza, possiamo dire che sì, Django è stato all’altezza delle aspettative poste a premessa del suo sviluppo, più o meno.
Tra qualche intermittente sbalzo di ritmo e un discontinuo mordente narrativo, l’intimismo della serie colloca il prodotto in un filone che ha il merito e l’urgenza di parlare il linguaggio del suo oggi.

L’importante è avere qualcosa da dire.

Viaggio tra i Django, demitizzare gli eroi

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Questo Django qualcosa da dire ce l’ha, eccome. Partiamo da un’evidenza: il western che contorna, ospita e posiziona la serie è un pretesto contestuale, simbolico e tematico per espandere le pieghe di una riflessione che sa argomentare le sue posizioni.

Ogni mutazione del tema di Django, a partire dal testo originale di Corbucci, passando per Takashi Miike (Sukiyaki Western Django) e Tarantino (Django Unchained), si è servito del west e del suo protagonista come assemblatore di un discorso dal respiro politico, sociale e culturale attualizzato ai suoi tempi e rivelatore di sensibilità. Ciascuna ricomposizione si è portata dietro qualcosa della precedente, componendo un iper-testo tutto postmoderno che, se letto nel suo insieme, narra ancora un’altra storia.

Per ora, riavvolgiamo il nastro. Quello che i Django sanno fare molto bene è partire da un’aspirazione semplice: demitizzare i loro eroi, muovendosi al di là del bene e del male. Ciondolando tra gli universi narrativi si farebbe fatica ad individuare un singolo personaggio su cui non puntare il dito della moralità, finendo per mappare una topografia incerta di anti-eroi profondamente segnati dalla propria umanità.

Su tutti, il protagonista. Un uomo quasi sempre arreso, scavato dalla sofferenza, apparentemente finito e definitivamente errante, incapace di appartenere: a un luogo, a qualcuno, a se stesso. Nel viaggio che va da Corbucci alla Comencini, quello a cui sembra di assistere è un progressivo spostamento sull’asse della disillusione. Tutti i Django precedenti si concludevano con una speranza di possibilità, una sorta di parabola formativa mossa da ideali granitici e consapevolezze ritrovate. Fino ad arrivare alla serie.

Uomini sconfitti

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Matthias Schoenaerts, figlio di un’involuzione personale che nasconde un segreto ingombrante (che non riveleremo e che avrebbe meritato un maggiore sviluppo), racchiude in sé la fine stanca di un uomo che ha smesso di sognare. Piegato su se stesso, privato di quel fascino estetizzante che tanto ha particolarizzato i predecessori, il suo Django è un uomo totalmente asciutto, destinato a un definitivo annegamento nello spazio represso dei suoi sentimenti.

Il rapporto con Sarah (Lisa Vicari) è ricucito con tempo, delicatezza e quella coscienza abile nel preannunciare l’ultima fatica di un personaggio arrivato al capolinea. L’aspirazione è il perdono, la redenzione passa per l’espressione di sé ma il dopo, per questo Django, non è più una possibilità.
Vendetta, empatia, crudezza e pietà sono nuovamente materia sintetica della sua personalità, trainanti di un viaggio introspettivo che, pur nel climax avveduto di un percorso di formazione ancora in grado di compiersi, finisce per rivelarsi beffardamente vano.

Affianco a lui un altro personaggio maschile: John Ellis (Nicholas Pinnock). Un uomo nato già leader e spezzato da un temperamento di difficile compressione. La sua storia traccia un itinerario interessante di retrocessione narrativa, rivelatrice di una caratterizzazione a più dimensioni che a visione ultimata continua a lasciare disorientati.

Sfaccettato da un rapporto complicato con tutti i figli, insieme soggiogati e schiacciati dalla sua paternità, nebuloso nella storia d’amore con una ragazza accolta e cresciuta da quando era solo bambina, accecato da un’incapacità crescente di gestire il potere, John Ellis è, per definizione, il personaggio destinato a perire vittima di se stesso.

Il conto sospeso è una questione al femminile

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Quasi tutti i Django si aprono su una premessa che risiede nel fuoricampo temporale della storia raccontata: il conto in sospeso. Sempre apparentemente legato a filo stretto con un bottino in denaro, il carburante propagatore all’efferata violenza del pistolero è, in realtà, una donna.

Nell’ipotetico multiverso dei Django che stiamo qui cercando di tracciare, il discorso sulle donne rimane uno degli aspetti più originali. Il film di Corbucci e quello di Tarantino potrebbero battagliare sul fronte opposto a quello di Miike e della Comencini, scontrandosi senza risparmio in un’ipotetica guerra sul tipo di rappresentazione scelta per la figura femminile.

Ma dietro alla patina narrativa di donne schiavizzate, prostituite e sottomesse si nasconde sempre, e comunque, un istinto di forza che muove il percorso del protagonista e non si adatta al ruolo -fintamente- stereotipico imposto. Che si chiami Maria, Mercedes, Broomhilda, Benten, Shizuka, Sarah o Elizabeth, ciascuna funziona da autrice e innesco alla storia principale.

In questo Django si salvano solo le donne

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La tematizzazione della figura femminile avanza a gradi e culmina nei prodotti di Takashi Miike e Francesca Comencini. Se il primo realizza un’opera delirante di continue variazioni, in cui il personaggio di Django è sintetizzato in svariate riduzioni – tra cui quello della guerriera Bloody Benten – la serie realizza un progetto che sceglie di dare salvezza solo ai suoi personaggi femminili.

Sul versante Sarah, il racconto si smarrisce in una caratterizzazione poco colorita, sfumata in una bontà priva di ombre e pericolosamente inclinata verso un cliché di accudimento che finisce per sgonfiarne la personalità. Sebbene autodeterminata, indipendente e innegabilmente emancipata, il suo arco impallidisce rispetto a quello disegnato per la controparte anti-eroica: Elizabeth.

La storyline della villain di questa trama è in assoluto quella più originale, sia da un punto di vista narrativo che nella sua resa formale. L’ascesa della “Signora” di Elmdale, intrecciata al fil rouge della religiosità, si accompagna a soluzioni visive e di racconto virtuosamente incisive, infiammate da un ardore vendicativo che trasforma il personale in crociata universale.
Supportata dall’impeccabile interpretazione di Noomi Rapace, la storia di una ferita sentimentale, edipica e sanguinante per l’intero corso della stagione, si conclude in un apice simbolico di liberazione e rinascita.

Nel complesso, tutto il merito di Django va al coraggio di voler sventrare il western, fragilizzandone la virilità (con delicatezza e senza pregiudizio) e orientandolo a un’innovazione coniugata al femminile.

Django, dramma in maschera western

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Se dovessimo misurare le temperature di tutti i Django citati, quella della serie spiccherebbe per un calore più emotivo che sensazionalistico. Tarantino, Corbucci e Miike mettono in scena una furia vendicativa che scommette con decisione su violenza e spettacolarizzazione. La Comencini danza a un ritmo più lento, nascondendo dietro allo scheletro del western una derivazione in dramma sentimentale, familiare ed esistenziale.

La cadenza del racconto sembra procedere più all’indietro che in avanti, soffermandosi con cura sull’esplorazione sensibile dei suoi personaggi e meno sull’avanzare del plot. Se da un lato questa elezione paga in termini di approfondimento, dall’altro perde a livello di racconto, finendo per risultare più convincente nella proposta dei temi che nel loro effettivo sviluppo.

La storia tende ad indebolirsi nella ripetizione di situazioni che scaricano la tensione e sviliscono la credibilità di un reale senso di pericolo. Il problema è ritmico: a fronte di scelte anche audaci, la serie a più riprese difetta di mordente nel trascinare gli episodi.
Fra sviste narrative, svolte approssimative e tagli registici eccessivamente enfatici, quello che viene a mancare è il senso di stupore di fronte agli avvenimenti, troppo spesso anticipati da uno sguardo che sembra sempre sul punto di spiccare il volo e poi scarseggiare del coraggio necessario.

Al netto delle sbavature che impongono riserve, Django si rivela una serie che tra citazionismo, azione, intimismo, mitologia e ottime interpretazioni tenta di sviscerare il nucleo del western, mescolandone gli elementi e ricomponendo una storia che ha l’ardire di allargare le maglie del genere, proponendo qualcosa di nuovo. Ma riesce a lasciare il segno?


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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