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Drive Away Dolls, il pulp tragicomico di Ethan Coen con Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan

Drive Away Dolls, il pulp tragicomico di Ethan Coen

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8 minuti di lettura

Disponibile nelle sale italiane a partire dal 7 marzo, esclusivamente in lingua originale con sottotitoli in italiano, Drive Away Dolls è il primo film diretto in solitaria da Ethan Coen, a distanza di sei anni circa da La ballata di Buster Scruggs e tre anni dopo The Tragedy of Macbeth, diretto dal fratello Joel e candidato agli Oscar. Protagonisti della pellicola sono Margaret Qualley, Geraldine Viswanathan, Beanie Feldstein, Colman Domingo, Pedro Pascal, Bill Camp e Matt Damon, calati perfettamente nei panni di personaggi estremamente caricaturali, fedeli al tono canzonatorio e irriverente che caratterizza il film fin dalle prime inquadrature. 

Drive Away Dolls è fatto della stessa sostanza dei fratelli Coen, perché non è importante che alla regia e alla scrittura ci sia soltanto Ethan – insieme alla moglie Tricia Cook -, quaranta anni di complicità lasciano inevitabilmente il segno. Ci sono infatti i trip allucinogeni de Il Grande Lebowski, l’umorismo sfacciato di Burn After Reading e, più in generale, un sano desiderio di autocitazionismo. Ma soprattutto c’è quella straordinaria poliedricità che caratterizza da sempre la loro filmografia. Nonostante questo però, Drive Away Dolls è anche molta apparenza e poca sostanza, inaspettatamente. Per usare una metafora calzante, un’idea rimasta chiusa, in parte, dentro una valigetta di cui non si conoscerà mai la combinazione. 

Drive Away Dolls, un viaggio di ordinaria follia

Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan in Drive Away Dolls

Jamie e Marian sono due ragazze lesbiche che vivono a Filadelfia. La prima, estroversa e completamente disinibita, è appena uscita da una relazione. La seconda, timida e introversa, ha in programma di fare visita alla nonna a Tallahassee. Un viaggio per schiarirsi le idee, a cui Jamie chiede di partecipare, proponendo di prendere una macchina a noleggio e godersi un on the road fino alla Florida. A causa di un malinteso però, alle due ragazze viene noleggiata una macchina contenente un misterioso carico appartenente a tre criminali decisamente improbabili.

Ignare di tutto ciò, Jamie e Marian inizieranno a conoscersi meglio, entrando sempre più in confidenza, ma una volta varcato il confine della Florida, si accorgeranno appunto del carico che stanno trasportando. Mentre i tre criminali sono sulle loro tracce, decisi a riprendersi la valigetta e il suo contenuto, Jamie approfitta della situazione per prendere l’iniziativa, convincendo anche Marian a chiedere un riscatto

Drive Away Dolls è un vero e proprio trip, inteso come viaggio all’interno della mente di Ethan Coen, perché pregno di quella comicità e di quella concezione di cinema che caratterizza la filmografia del “regista a due teste” – così viene chiamato ironicamente questo dualismo. 

Parliamo d’altronde di una pellicola che, almeno in teoria, avrebbe avuto le carte in regola per rappresentare, in un certo senso, la sintesi tra il suo lato più folle e umoristico e quello invece più legato alle atmosfere noir di Fargo e Non è un paese per vecchi. Ed è un peccato, proprio per questo, che in fin dei conti Drive Away Dolls risulti piuttosto un viaggio senza meta, rivelando oltretutto un’inappagante sterilità, che non rovina completamente l’esperienza cinematografica, ma certamente ne depaupera le ambizioni.

Tra B-Movie e satira politica

Un'immagine di Drive Away Dolls di Ethan Coen

Se il cinema dei fratelli Cohen è un cinema di genere, Drive Away Dolls è un film indiscutibilmente pulp, che proprio dal genere pesca alcune delle dinamiche più ricorrenti, riadattandole in chiave tragicomica. Quando parliamo di pulp è inevitabile che il collegamento diretto sia con Quentin Tarantino. In questo caso, addirittura, c’è di mezzo una valigetta, e quindi è letteralmente impossibile non collocare Drive Away Dolls all’interno del filone post-tarantiniano e post Pulp Fiction – nonostante la valigetta fosse un elemento chiave anche in Non è un paese per vecchi

Tuttavia, il fil rouge che più di ogni altra cosa accomuna Ethan Coen a Tarantino, in questo caso è la fascinazione per i B-Movie, il desiderio di ricreare quelle atmosfere con una diversa consapevolezza del mezzo cinematografico. E quindi la regia di Drive Away Dolls, la composizione delle inquadrature, i movimenti di macchina sono incredibilmente ludici, così come le transizioni. La sensazione che la pellicola lascia nello spettatore, infatti, è che Ethan Coen abbia realizzato questo progetto più per se stesso che per il pubblico, per il desiderio di sperimentare.

Insomma, quella suddetta sterilità deriva proprio da questo. Perché se è vero che Drive Away Dolls è un film indiscutibilmente divertente, soprattutto se si apprezza questo tipo di comicità tra il demenziale e il grottesco, è altrettanto vero che la scrittura di Ethan Coen e Tricia Cook risulta fin troppo autocompiacente

Una satira disimpegnata

Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan in una scena di Drive Away Dolls

La satira nei confronti dell’America conservatrice è il carburante che aziona gli ingranaggi del film. La scelta di abbracciare la tematica LGBTQIA+ va ovviamente in questa direzione, così come quella di scegliere la Florida, roccaforte dell’America repubblicana, come meta del viaggio. Il fatto però è che anche la critica di sottofondo, un po’ come il film, rimane molto superficiale, disimpegnata

C’è poi anche una certa dissonanza tra il ritmo della narrazione e quello invece dettato dalle transizioni, con cui Ethan Coen cerca, senza troppo successo, di dare alla pellicola una dinamicità più accentuata. Insomma, Drive Away Dolls è un film che merita certamente di essere visto, anche soltanto per l’eccellente lavoro di un cast divertente e divertito, ma al tempo stesso risulta purtroppo una corsa a vuoto, un viaggio senza una precisa destinazione. Gli vorrete bene, è inevitabile, ma vi lascerà la nostalgia di quello che sarebbe potuto essere.


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Sono Filippo, ho 22 anni e la mia passione per il cinema inizia in tenera età, quando divorando le videocassette de Il Re Leone, Jurassic Park e Spider-Man 2, ho compreso quanto quelle immagini che scorrevano sullo schermo, sapessero scaldarmi il cuore, donandomi, in termini di emozioni, qualcosa che pensavo fosse irraggiungibile. Si dice che le prime volte siano indimenticabili. La mia al Festival di Venezia lo è stata sicuramente, perché è da quel momento che, finalmente, mi sento vivo.

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