El Conde di Pablo Larraín, in concorso nell’80ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un esercizio di maniera fine a se stesso, tanto vale chiarirlo subito. “Ho passato anni a immaginarlo come un vampiro che è rimasto vivo nella storia attraverso incubi e fantasie. I vampiri non muoiono, così come i crimini e le stragi di un dittatore che non ha mai affrontato la vera giustizia”, dice Larraín.
L’intento del regista e del team produttivo era quello di mostrare la brutale impunità di Pinochet, il suo viso, la sua scia; per questo motivo il taglio è quello della satira politica, della farsa, che raccontasse con acre sdegno la crisi esistenziale di un uomo che deve decidere se vale la pena continuare a vivere come un vampiro, nutrendosi di sangue umano e punendo il mondo con il suo male eterno. “Un promemoria allegorico del perché la storia si ripeta, per ricordarci quante cose pericolose possano accadere”.
El Conde è disponibile su Netflix dal 15 settembre.
El Conde, Jaime Vadell è il vampiro Augusto Pinochet
Il simbolo del fascismo mondiale Augusto Pinochet (Jaime Vadell) si è ritirato a vita privata nella villa più a Sud del continente e il suo unico desiderio è di perpetrare la sua esistenza esercitando, senza sosta, la sua malvagità. Dopo 250 anni comincia però a domandarsi se ne valga davvero la pena, soffocato da crisi familiari e afflitto all’idea che lo si ricordi come un ladro. Decide allora di rinunciare al privilegio dell’eternità, per cui smette di bere sangue umano. Nonostante le dinamiche tossiche alimentate dalla moglie adultera e dai figli, avide sanguisughe, Pinochet ritrova la voglia di vivere grazie alla relazione amorosa con una contabile francese (Paula Luchsinger).
Uno stile poco equilibrato, un risultato che annoia
El Conde è un compiacimento narcisistico. Una tendenza piuttosto avviata e rincorsa, negli ultimi anni, da registi che spolpano il mezzo cinematografico facendone un divertissement, personale molto più che collettivo (basti pensare a Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades di Iñárritu, in concorso per il Leone d’Oro nella 79ma edizione). Del regista cileno e del suo particolare marchio di fabbrica – la “sfida alle convenzioni tradizionali” – El Conde incarna la deriva più manieristica. Se l’intento è puro e appare più che condivisibile la volontà di Larraín di tratteggiare Pinochet come un vampiro per alludere allegoricamente alla persistenza del male nella storia, lo stesso non si può dire della mise en scène, appesantita da una mistione poco equilibrata di satira e dark comedy.
L’uso del bianco e nero non è efficace ma è artificiale: Larraín se ne serve come espediente di teatralità, un filtro per generare la giusta dose di ambiguità e contestualizzare la narrazione in una cornice di irrealtà che fallisce la sua missione. La pellicola è vecchia, stantía, morta ancor prima di vedere la luce.
El Conde è un film che annoia, non per i suoi dilatati centodieci minuti ma per la sua totale incapacità di generare un confronto attivo. Ride del male – del male nella storia, del male nella storia degli uomini. Tutto ciò dovrebbe aizzare il pubblico, farlo reagire, suscitare una qualche emozione, risentimento – più di ogni altra. Invece nulla, nessuno riflette. Ma tutti sbadigliano.
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