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Elemental, amore e integrazione a Element City

Elemental, il grande ritorno della Pixar al cinema

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8 minuti di lettura

Torna la Pixar al cinema: dopo Lightyear, e dopo Red, Luca e Soul, che al contrario avevano fatto il loro esordio direttamente su Disney Plus, esce Elemental, film diretto da Peter Sohn, regista di origine coreane, che mette la propria storia al servizio dell’animazione, della narrazione cinematografica, che qui raggiunge una profondità degna dei fasti di un tempo – cosa che negli ultimi 10 anni la Pixar ha saputo fare soltanto con Coco, Inside Out e Soul.

Perché l’idea alla base di Elemental è realmente straordinaria, a partire dal concetto di rappresentare la multiculturalità, l’integrazione all’interno di una società sempre più insofferente alla diversità, alla contaminazione. È un peccato quindi che la sceneggiatura finisca per essere troppo didascalica, e che non si abbia avuto il coraggio di osare, specialmente sul finale. Ma Elemental è un buon punto di (ri)partenza per sperare in un’auspicata rinascita

Elemental, gli opposti si attraggono

Ember in Elemental

Elemental si apre con un’immagine che ci tocca da vicino, tocca la nostra storia. Quella sequenza iniziale ci ricorda l’arrivo dei migranti italiani in America: una nave immersa nella nebbia e uno scorcio in lontananza sulla terra delle opportunità. Fosse stata New York sarebbe stata la Statua della Libertà la prima cosa che Cinder e Bernie avrebbero visto, ma qui siamo a Element City, metropoli dove gli abitanti appartengono ai quattro elementi – tre prima del loro arrivo. 

I due vengono dalla Terra del fuoco, sono quindi migranti, in cerca ovviamente di un futuro migliore. Il loro arrivo sancisce l’integrazione di un nuovo elemento all’interno della società, ma Element City non sembra essere così inclusiva, non sembra accoglierli di buon occhio. Cinder e Bernie metteranno così il primo tassello per la creazione di Fire Town, un quartiere di periferia, quasi un ghetto, costruito su misura per il popolo del fuoco. 

La coppia avrà una figlia, Ember, che crescerà tra le mura dell’emporio di famiglia, con la promessa che un giorno, quando sarà pronta, potrà prendere il posto del padre alla guida dell’attività. “Tutto questo un giorno sarà tuo”, dice Bernie come Mufasa con Simba. Ma quando Ember, ormai cresciuta, farà la conoscenza di Wade, un ragazzo d’acqua, le sue prospettive di vita cambieranno radicalmente. Tra i due nascerà un’improbabile storia d’amore, complicata non soltanto per la contrapposizione degli elementi a cui appartengono, ma anche per i pregiudizi della famiglia di Ember. 

Un (altro) inno all’inclusività della Pixar

Ember e Wade in Elemental

Elemental racconta nient’altro che la società odierna, specialmente quella americana, agglomerato di diverse culture e molteplici etnie. D’altronde, come abbiamo detto, Sohn pesca nella propria infanzia, perché quella di Bernie e Cinder è la storia dei suoi genitori, e quello dell’inclusione non poteva che essere un tema a lui caro. Lo fa delineando i tratti di una società restia alla diversità, contrapponendogli però una storia d’amore capace di abbattere qualsiasi barriera, di farsi simbolo di una convivenza ideale e ad oggi utopica.

Potrebbe essere la storia di Romeo e Giulietta, o meglio ancora quella di Maria e Tony in West Side Story. Ember è una ragazza di fuoco, mentre Wade un ragazzo d’acqua. Basterebbe questo a rendere il loro amore impossibile. Rappresentano i due elementi opposti, gli unici due che possono mettersi vicendevolmente in pericolo: l’acqua spegne il fuoco, mentre quest’ultimo fa evaporare l’acqua. 

Questa antitesi è insita anche nei loro caratteri. Amber è irascibile e introversa, Wade, invece, sensibile e espansivo. I due impareranno però ad abbracciare la diversità, comprendendo quanto l’alchimia tra i due elementi sia realmente possibile. Elemental è un inno all’inclusività, a un’integrazione che deve essere necessariamente reciproca, e non unilaterale.

In questo modo si crea anche la possibilità di esplorare il tema dei conflitti generazionali. Ember sente sulle proprie spalle la pressione di dover raccogliere l’eredità del padre, la paura di deludere le sue aspettative. Probabilmente però, in questo senso, la questione centrale è la stessa riluttanza del padre nei confronti degli altri elementi. Su tutti l’acqua, ovviamente, il motivo principale per cui Element City è un ambiente a tratti ostile, ma anche simbolo per lui di una contaminazione inaccettabile. Sarà però proprio Ember a dimostrargli che aprirsi all’altro non significa rinunciare a se stessi, alla propria natura e alle proprie origini, e quell’inchino sul finale ne è la prova. 

Osare o non osare? Questo è il dilemma centrale di Elemental

Element City in Elemental

“Essere o non essere”, scriveva Shakespeare. Osare o non osare, sembra essere stato invece il dilemma dietro la realizzazione di Elemental. Se dal punto di vista tecnico ed estetico la Pixar tenta un approccio a un’animazione più classica, creando una commistione con quella più tradizionale, in generale il film non sembra mai avere veramente il coraggio di essere audace fino in fondo. 

Character design e world building sono ineccepibili, e dimostrano comunque quell’eccellenza a cui la casa di produzione ci ha abituato. La sperimentazione diventa però sempre più necessaria, specialmente dopo l’incursione Sony all’interno del mondo dell’animazione, che con i due Spider-Man – e anche I Mitchell contro le macchine – ha messo in atto quella che sembra essere una vera e propria rivoluzione.

Dal punto di vista narrativo, invece, lo splendido concetto alla base del film si traduce in una sceneggiatura talvolta fin troppo didascalica. Il risultato è comunque un film assolutamente gradevole, che riesce a sopperire alle proprie mancanze facendo leva sulle emozioni, su una forte componente sentimentale e alcune trovate davvero irresistibili. Un finale alla Bones and All fa anche sperare per un momento che la Pixar abbia finalmente trovato il coraggio di osare, svelando invece che, proprio come in Soul, manca ancora la forza di abbandonare quel “e vissero per sempre felici e contenti”. E quindi lo accettiamo. Le favole, d’altronde, finiscono sempre così.


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Sono Filippo, ho 22 anni e la mia passione per il cinema inizia in tenera età, quando divorando le videocassette de Il Re Leone, Jurassic Park e Spider-Man 2, ho compreso quanto quelle immagini che scorrevano sullo schermo, sapessero scaldarmi il cuore, donandomi, in termini di emozioni, qualcosa che pensavo fosse irraggiungibile. Si dice che le prime volte siano indimenticabili. La mia al Festival di Venezia lo è stata sicuramente, perché è da quel momento che, finalmente, mi sento vivo.

1 Comment

  1. Grazie per l’interessante articolo,
    rimango perplesso sul fatto che “osare” per una fiaba debba significare annullare il lieto fine. Non credo che sia necessario questo per comunicare più efficacemente determinati contenuti, né per rendere più interessante il messaggio, semmai al contrario finirebbe con il contribuire a rendere la storia un po’ più grigia, come se questo giogiore fosse l’aderenza del reale e della realtà. Non sono pienamente convinto di questo, anzi ritengo che occorra proprio contrastare questa tendenza a vedere il bicchiere mezzo vuoto.

    Dal punto di vista di espressione filmica concordo sul fatto che sia didascalico come film e quindi meno bello i ben riuscito rispetto ad altri della Pixar. Ma in ogni caso ha arricchito il vocabolario e la struttura articolata dell’universo animato che fanno intravedere dallo schermo, con cui riescono ad esplorare tematiche sempre più intricate in maniera immediata e audace. Osare osano eccome.

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