La terza (e sembra non ultima) stagione di Emily in Paris è arrivata su Netflix a distanza di un anno esatto dalla seconda, sfoggiando la sua caratteristica leggerezza. Un biglietto da visita perfetto da distribuire nel pieno del periodo natalizio. Ciononostante, Emily in Paris 3 conferma di avere troppo poco da offrire in assenza del mood ideale per chiudere un occhio di fronte alla poca sostanza, in nome di un’estetica di notevole impatto.
Vecchi rancori, nuovi inizi: la trama di Emily in Paris 3
Camille si è appena trasferita a casa di Gabriel per dare una seconda possibilità alla loro storia, nonostante il patto stretto con Emily poco prima Nel frattempo, quest’ultima ha deciso di lavorare con Sylvie ed entrare a far parte della sua nuova agenzia.
Incapace però di lasciare il posto da Savoir, Emily continua di fatto a lavorare anche per Madeline cosicché, inevitabilmente, la situazione finisce per avere conseguenze sulla sua vita privata, e più di tutto sulla neo-nata relazione con Alfie.
La fiera delle vanità
Emily in Paris 3 trasforma ogni situazione in un pretesto per sfoggiare abiti d’alta moda, costruisce atmosfere pseudo-magiche a partire da una banale passeggiata nel parco e spettacolarizza ogni singola ripresa con sfondi instagrammabili, composizioni di colori, vicoli parigini di indubbia bellezza. Analogamente alle due precedenti stagioni la terza fa dello stile il suo cavallo di battaglia, ma alza il tiro dal punto di vista estetico tanto da stare spesso in bilico tra il molto chic e l’esagerazione.
Sfoggiando abiti sempre più colorati, ingombranti, palesemente finalizzati a riempire ogni inquadratura, Emily in Paris 3 dimentica che a strafare spesso non si guadagna nulla e che perfino l’eleganza, quando fine a se stessa, tende a stancare. In questo modo, puntata dopo puntata, si ha come l’impressione che il tocco di stile serva solo da tappabuchi di una sceneggiatura povera che si accontenta di fornire allo spettatore l’indispensabile, noncurante delle insensatezze sparse qua e là: rapporti interpersonali costruiti nell’arco di qualche minuto, sguardi ammiccanti, giochi di flirt e qualche introspettiva piazzata ad hoc ogni tanto, gusto per far sembrare che si stia facendo sul serio.
Emily in Paris 3: sempre più sfarzo, ma per cosa?
Con questa terza stagione piuttosto mediocre, Emily in Paris conferma di non poter offrire allo spettatore più di quanto si possa apprezzare con gli occhi: tra i colpevoli, una Parigi dall’immutata bellezza ma che ormai ha smesso di meravigliare, e una trama talmente scarna e banale che Gossip Girl (quello originale) a confronto sembra scritta da Christopher Nolan. Non che tutto ciò sia in assoluto sbagliato; sbagliato sarebbe confondere un prodotto ricercato con uno leggero e piacevole da guardare, ma meritevole da pochi punti di vista.
Come si suol dire, dare a Cesare quel che è di Cesare: nel caso di Emily in Paris 3, non si può negare che sia una stagione scenografica e di impatto, nel complesso graziosa come le precedenti, l’ideale quando non si è in vena di qualcosa di impegnativo che richieda particolare attenzione. Perché infondo è proprio questo il suo scopo: lasciare allo spirito un po’ di tempo per respirare e rigenerarsi, in attesa della prossima serie targata Netflix in grado di scalzare le irrilevanti dalla Top 10.
Oggettiva quanto la sua cura per l’estetica è la velata ammissione di Emily in Paris di aver rinunciato al tentativo di dare di più; stando così le cose, si spera che la quarta stagione sia l’atto finale di una serie che da raccontare ha sempre avuto ben poco, e che ha adempiuto al suo compito già da un po’. Non è necessario tirarla troppo per le lunghe: di questo passo, il rischio è di avere una stagione finale pullulante di tacchi trenta centimetri e con sfilate avanguardiste nella cattedrale di Notre Dame.
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