Enea di Pietro Castellitto ci riporta a Roma, sprofondata nell’abbagliante lustro di decadenza morale. La capitale è una bocca affamata di desolazione pronta a divorare le membra, è ancora disperazione, solitudine e resa a una vita che grava sulle teste di tutti.
Enea è mito, archetipo e ambizione. È un Castellitto che torna a Venezia, dopo il successo de I predatori, con la testa alta e il coraggio di osare, alzando l’asticella della sua personale visione di cinema e calpestando forte l’acceleratore.
Consapevole arroganza di un talento sregolato
Castellitto rientra dentro mura borghesi con l’audacia di un linguaggio che non desidera passare inosservato. È un’espressività manifesta, volutamente sofisticata, narcisistica e frullata di accenti marcati su ogni sua scelta stilistica. Enea è un film del suo autore e per il suo autore, libero di essere ciò che desidera e quindi facile di critiche alla sua altezzosità.
E se sull’amore per l’immagine non c’è di che discutere, tutt’altra perplessità può esondare dai contenuti. Può, perché il Pietro regista è divisivo, più di tanti altri. Lo si ama o lo si odia, senza vie di mezzo. In concorso a Venezia rilancia la sfida raddoppiando d’intensità, senza curarsi troppo della tempesta che gli gira attorno. Quindi infierisce con un film incisivo, allucinato, indistinto di generi e sicuro di sé, anche quando la propria sfacciataggine viaggia a sfavore di una trama vacillante, caotica, parcellizzata più che compiuta.
È una storia di malavita e ingenuità giovanile, figlia di un’apparenza che desidera potenza e in quella potenza ricerca generosità. Enea è famiglia, rimorso e trattato esistenziale. Smembra il suo incipit in un dialogo paradigmatico, involuto dentro a un’idea di vita portata alle sue estreme conseguenze: vivere soli o essere clan, a condizione che esista uno scopo e si scelgano le persone giuste. C’è di nuovo quell’ironia tagliente, tragicomica e politicamente scorretta, c’è ancora l’impronta precisa di una soggettività che si permea in scrittura e sua traduzione. Convincendo in una e traballando nell’altra.
Enea, dentro mura borghesi di giovanile vitalità
L’arena agiata di Enea è abitata da due giovani ragazzi, Enea (Pietro Castellitto) e Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio). La parabola della loro quotidianità è cadenzata dai locali che frequentano, dagli smerci di cocaina, i party abbacinati, le luci, la musica e le famiglie spezzate e fragili di insoddisfazione.
Eppure, nel barcollare esausto di personalità soffocate, ogni personaggio cerca il suo modo di sopravvivere e una via prodigiosa verso la felicità. Castellitto al suo punto ci arriva senza indulgenza, facendo soccombere le sue individualità e costringendole ad arrendersi all’unica vera opportunità di pace: l’amore. Che poi quello sia davvero il punto è questione di prospettive, ma lì ci porta il suo testo. Enea è tragica anti-eroicità, disagio giovanile, vitale e romantica ricerca di sé.
È un film complesso che lascia in silenzio. Di quelli assordanti, da lacerare decisi con direzioni ferme e plausibilmente antitetiche. Lo si ama o lo si detesta, questo è l’arrivo e probabilmente l’aspirazione stessa di un trentenne giovane, sfrontato e inebriato da un talento indiscutibile. Che piaccia o non piaccia, una maturità di sguardo così sporca e così raffinata è lode al coraggio di un cinema italiano ancora vibrante di lucidità. Quanto al resto, questione di gusti.
Seguici su Instagram, Facebook e Telegram per scoprire tutti i nostri contenuti!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!