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Estranei copertina

Estranei, la forma sensoriale del lutto

9 minuti di lettura

Siamo tutti un po’ estranei, si sa. Quando non ci conosciamo, quando ci intercettiamo, quando solo coesistiamo. Siamo altro da noi anche quando ci connettiamo, in quel percepito che dall’interno scivola all’esterno e ci ritorna diverso, disunito. Ce ne aveva già parlato, Andrew Haigh, invitandoci continuamente a ragionare sull’identità, riavvolta, ripensata e contaminata dall’incontro con altre estraneità. I precedenti Weekend e 45 anni ne hanno anticipato le pulsioni, incorporandole nella percettività di questo Estranei, dove la formula espressiva è rimasta coerente, inanellata tra i margini concilianti di un unico possibile antidoto all’isolamento: la condivisione.

In sala dal 29 febbraio, l’ultimo lavoro di Andrew Haigh sagoma la solitudine su alienanti drammi interiori, che sequenziano i temi del lutto, l’omosessualità e la cura di sé. Estranei è un film pieno, verboso e ricolmo di sensazioni. Tutte disseminate nella tessitura interpretativa di un cast essenziale ma generoso, riunito intorno a un Andrew Scott che si dona indifeso e ci trascina nei sotterranei di paure e desideri viscerali. Quelli che accomunano chi ha perso qualcuno, chi se stesso e chi si è sentito solo.

Dalla stanza mentale di una storia che rifugge classificazioni e accoglie interpretazioni, Estranei ci esorta ad assimilare il dolore, neutralizzandolo con garbo nella sua estroversione. Dove la scoperta di sé nell’altro è negoziazione, conferma e verità identitaria, ripulita dall’avvelenamento di un passato sanabile, in ogni sua inconciliabile estraneità.  

Estranei, vite spinte ai margini

Paul Mescal e Andrew Scott in una scena di Estranei

Quello di Estranei è un racconto che si annida in luoghi liminali, animati dalla persistenza di una sofferenza che insabbia e rinuncia alla vita. Adam (Andrew Scott) abita in una Londra ovattata, incastonato tra le pesanti pareti di un appartamento spoglio, circoscritto da finestre che non possono essere aperte e occluso in un interno invalicabile, relegato a passiva osservazione di un fuori in cui la vita scorre, senza essere afferrata.

È un uomo adulto, segnato nel volto dallo strazio nostalgico delle sue assenze. Un incidente gli ha portato via i genitori quando era ragazzino, ora le mura domestiche testimoniano il difficile tentativo di scrivere del proprio passato. Sceneggiatore, scrittore, inventore di mondi e personalità: sulla carta di Adam si setacciano esistenze, nel suo quotidiano tutto è fermo, rarefatto, inquinato dal trauma della perdita e mistificato dall’immaginazione.

Nel palazzo che svetta isolato sul fondale di Londra vive soltanto un altro inquilino. Harry (Paul Mescal) bussa alla porta in cerca di compagnia, dispensando erotismo e smarrimento, ricercando vicinanza e calore umano. Adam declinerà, salvo poi ripensarci. È l’inizio di una storia d’amore denudata nelle sue semplicità, attestata dalle parole, gli imbarazzi e le tenere compensazioni. È il soggetto di elezione di Haigh, la coppia, il territorio – reale o mentale – in cui esplorare conflitti e riformulazioni, riscoprendo il valore salvifico della vulnerabilità, della fiducia e dell’apertura all’alterità.

La conoscenza tra i due ragazzi scorre parallela all’urgenza di un ritorno al passato e si imbroglia negli sforzi di Adam di scrivere la sua storia, ripartendo dal quel 1987 in cui tutto si è cristallizzato. La densità di Estranei si misura a partire dalle sue alternanze, dall’aggrovigliata relazione tra realtà e soggettivazione, che prende spunto dalla fantasia-memoria dell’Adam scrittore e poi dà corpo alle sue afflizioni, coreografando un mondo fantasmatico cui partecipiamo senza pretendere di orientarci.

L’evanescente campionario di raffronti con la morte ingurgita Estranei tra due filoni narrativi, quello della gioventù, dove Adam incontra lo spettro dei suoi genitori, e quello dell’età adulta, dove lentamente ricomincia ad amare e a lasciare andare, in ogni forma possibile. La messa in scena lo intervalla sempre di confini e trasparenze, fotografandolo nel contrasto cromatico dei suoi stadi emotivi e inghiottendolo nel vano claustrofobico di due ambienti chiusi: la casa d’infanzia e l’appartamento in città. Speculari di un passato e un presente incorporei, connessi solo dal movimento onirico di un treno che ricuce le distanze e ne assottiglia i presupposti di realtà, deflagrati in un finale che esaspera l’astrazione ma raggiunge pacificazione, aggrappandosi alla vita.

You were always on my mind

Jamie Bell, Claire Foy e Andrew Scott in una scena di Estranei

Tratto dal romanzo di Taichi Yamada ma riletto alla luce di una visione personale, l’Estranei di Andrew Haigh compassa il viaggio di elaborazione del lutto accarezzandone le sfumature, materializzando nei suoi personaggi ogni sentimento che attraversa l’assenza. Tra le pieghe del suo trauma, Adam si riappropria di una genitorialità paralizzata nel tempo (quello dell’anno della loro morte), confrontandosi da adulto con due personalità, ora coetanee, che si scoprono fallibili, vinte da dubbi, nostalgie e rimpianti propri.

Estranei ci racconta della possibilità di colmare quanto perso, concatenandosi tra le emozioni del protagonista e quelle di una madre (Claire Foy) e di un padre (Jamie Bell) – e non solo – strappati alla vita. Esplora i non detti, chiarisce gli errori e sconfina nel punto di vista di chi se n’è andato, legittimandone le fragilità.

Nel farlo rafforza il senso di solitudine, ragionando sull’omosessualità del protagonista, sulla sua difficoltà di sentirsi amato e accettato da una famiglia, e per estensione una società, che semina ancora sradicamento. Haigh mette a confronto epoche riflettendone credenze, conoscenze e percezioni, tridimensionalizzando l’emarginazione di Adam e donandogli la possibilità di risolvere l’irrisolvibile, ripercorrendo la morte – reale e metaforica, altrui e propria – e scegliendo di lasciarsela alle spalle.

La sensibilità registica di Andrew Haigh compenetra l’interiorità del protagonista dissociandone lo sguardo. Gli strettissimi primi piani ne tradiscono l’intimità, le dissolvenze la smaterializzano, le musiche partecipano alla diegesi e accumulano consistenze; le distorsioni stridono, alludono e intensificano l’alienazione di un racconto che è ricordo, invenzione e alterazione.

Estranei dissolve tutti i confini, fondendo corpi, sguardi e situazioni dentro un ecosistema privo di coordinate, in sovrimpressione tra regimi di realtà. Che spesso eccedono in sensorialità, cedendo alla disperazione e alla tentazione di infierire anche dove sarebbe bastato suggerire, senza rinunciare all’universalità di un sentimento che accomuna tutti, e quindi ci tende la mano. Per ricordarci che l’accettazione passa solo attraverso lo scambio di uno stato indifeso, in cui il dolore infrange l’estraneità e rinsalda la vicinanza. Facendosi luce, unione e possibilità.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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