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Frame di Campo Thiaroye

Campo Thiaroye, col francese incastrato in gola

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10 minuti di lettura

Il capolavoro di Jean Renoir La Grande Illusione (1937) segue le vicende di ufficiali francesi detenuti durante la Prima Guerra Mondiale in un campo di prigionia tedesco: i nostri eroi, militari gentiluomini, sono dipinti fin da principio come virtuosi, come uomini con la U maiuscola, disposti anche a sedersi col nemico e parlare con lui di moralità, natura umana, etica e arte. Sono personaggi valorosi e degni della nostra ammirazione.

Eppure vi è una sequenza, breve ma significativa, nella quale i protagonisti vengono spostati di cella e si ritrovano a condividere gli spazi con un loro commilitone, un ufficiale dell’esercito francese nero di pelle. Egli viene trattato dai suoi stessi pari di rango come un cane randagio, viene ignorato e isolato nell’organizzazione della cella. Renoir, che tutto era meno che ciecamente patriottico, dimostra con una semplicissima serie di azioni come i nostri virtuosi eroi francesi siano irrimediabili razzisti, inclini al confronto col nemico tedesco ma incapaci di vedere un soldato alleato come essere umano.

Campo Thiaroye, presentato a Cannes 2024 nella sua forma restaurata e riportato a Bologna in questi giorni con Il Cinema Ritrovato, è La Grande Illusione ma girato dal punto di vista dell’ufficiale nero, la versione specchiata dello stesso film in cui le crudeltà è inflitta dai francesi e non sui francesi. Campo Thiaroye è uno dei film africani più importanti della storia del cinema ed uno dei migliori film di guerra mai girati.

Campo Thiaroye, pelle nera, crimini bianchi

Frame di Campo Thiaroye di Ousmane Sembène

Girato nel 1988, Campo Thiaroye è il triste resoconto di un reale fatto storico: il primo dicembre 1944 nelle periferie di Dakar, in Senegal, un plotone di soldati neri dell’esercito francese fu massacrato dai propri superiori dopo essere rientrato dall’Europa, dove aveva preso parte alla liberazione di Parigi. Il regista è Ousmane Sembène, senegalese e panafricano contemporaneamente. Senegalese perché buona parte della sua produzione è stata dedicata alla sua madrepatria, panafricano perché riuscì a riassumere in sé e nel proprio lavoro le speranze, le amarezze e le battaglie di un intero continente vessato dal colonialismo.

Fra i suoi più celebri apporti alla storia del cinema troviamo La Nera di… (1966) e Emitaï, Dio del Tuono (1977), il primo dedicato all’emigrazione senegalese in Francia ed il secondo all’arruolamento di truppe senegalesi nei ranghi dell’esercito francese. Campo Thiaroye va quindi a concludere un percorso autoriale iniziato venti anni prima e mai abbandonato o smorzato dal tempo; il film si presenta come un attento studio storico e psicologico delle vicende e dei personaggi che lo compongono, la complessità è data soprattutto dal senso di urgenza che Sembène è capace di veicolare col suo cinema: questa storia DEVE essere raccontata.

Innanzitutto, colpisce un elemento: la varietà linguistica del film è tale che per confessione della montatrice stessa Kahena Attia – presente in sala durante la proiezione – si trovò a dover montare scene seguendo la musicalità di idiomi a lei sconosciuti; si passa dall’ovvio francese, all’inglese, al wolof, all’hausa, fino all’arabo. Questa quantità di lingue serve soprattutto a rimarcare due idee: la pervasività della presenza coloniale in Africa e quella qualità panafricana del lavoro di Sembène a cui si faceva riferimento prima. Il francese si “incastra in gola” a molti personaggi, che anelano di poter tornare a parlare liberamente la propria lingua.

Ousmane, che prima ancora di essere regista fu intellettuale tout-court, decise di passare dalla scrittura e la poesia al cinema per “popolarizzare” ulteriormente i suoi messaggi: le immagini sono accessibili a chiunque, anche a chi non sa leggere, e quindi l’accuratezza nel voler rappresentare tutte le sonorità degli oppressi era di fondamentale importanza perché il film potesse parlare a quanti più africani possibile.

Riappropriarsi di un immaginario

Frame di Campo Thiaroyne di Ousmane Sembène

Altro elemento di fondamentale importanza in Campo Thiaroye è l’utilizzo che Sembène fa di determinati elementi visivi e simbolici, generalmente associati ai campi di concentramento nazisti nell’immaginario collettivo. Torrette di sorveglianza, uniformi deumanizzanti, filo spinato, sono tutti soggetti che dominano l’esperienza dei soldati africani nel film: la loro condizione viene anche messa direttamente a confronto con quella dei campi tedeschi quando un soldato traumatizzato dalla prigionia a Buchenwald ricorda gli orrori a cui ha dovuto assistere.

Il regista integra questi ricordi nel montaggio con reali immagini e filmati d’archivio, sottolineando come l’Olocausto sia ben documentato e sia entrato a far parte della memoria collettiva, mentre la totale assenza di prove visive inerenti al massacro di Thiaroye dimostrano la sua scomparsa dalla coscienza del mondo.

Campo Thiaroye è, come si accennava all’inizio, il riflesso de La Grande Illusione: se quello era un film di guerra incentrato sui tentativi di fuga di un gruppo di ufficiali, questo è un film di guerra nel quale un gruppo di civili viene progressivamente rinchiuso sempre di più, da soldati che erano prima lacchè e poi veri e propri prigionieri.

L’enfasi sulla bassa provenienza sociale dei protagonisti non cela affatto il credo politico di Ousmane Sembène, che militò anche nel Partito Comunista Francese: proprio di comunismo vengono accusati i rappresentanti dei soldati in Campo Thiaroye, gettando luce su un’altra delle questioni dimenticate della Seconda Guerra Mondiale, ovvero il diffuso sentimento anticomunista che spinse il blocco occidentale capitanato dagli Stati Uniti a rivoltarsi quasi immediatamente dopo la capitolazione di Hitler contro le truppe sovietiche precedentemente loro alleate.

Campo Thiaroye, reazioni della critica ieri e oggi

Frame di Campo Thiaroye di Ousmane Sembène

Per concludere, è interessante notare come Campo Thiaroye venne accolto alla sua uscita nel 1988: al film fu negata la partecipazione al Festival di Cannes di quell’anno. Fu accolto invece al Festival di Venezia, dove venne premiato per la miglior regia. Ma che questa apparente apertura italiana non ci tragga in inganno: ogni nazione europea ha il “suo Campo Thiaroye” scomodo e censurato; proprio noi italiani nel 1981 impedimmo la distribuzione nel paese del film Il Leone del Deserto, di Moustapha Akkad, dedicato alla lotta libica contro l’occupazione fascista italiana, in cui parallelismi con il film di Sembène certo non mancano.

Il ritorno di Campo Thiaroye a Cannes nella selezione dei classici di quest’anno fa ben sperare per una futura proiezione italiana del film di Akkad, ma per citare le parole di Mohamed Challouf, critico, produttore e regista tunisino che ha presentato il film di Sembène in cineteca: “chi si macchia di colonialismo, finisce inevitabilmente per sporcarsi col fascismo. Lo dico nella speranza che il passato dell’Africa non diventi il futuro dell’Europa“.

Le immagini che regolarmente ci giungono dai campi di prigionia libici finanziati per anni dal governo italiano, la costruzione di un centro di detenzione migranti in Albania con i soldi delle nostre tasse, e soprattutto gli orrori che ogni giorno si consumano a due passi dalla nostra totale indifferenza nei CPR, lager moderni, ci indicano che forse siamo molto più vicini allo sporco di quanto noi stessi non vogliamo ammettere.

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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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