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La nuvola interiore: sigari e sigarette nel film noir

16 minuti di lettura

Al noir non mancano le definizioni. Tra libri e corsi, uno dei i generi più amati da critica e pubblico cerca ancora la formula perfetta. Eppure Robert Mitchum ci arrivò con schiettezza: «Non so che significa il termine ‘noir’. A quel tempo facevamo solo film (…) Cary Grant e le altre star della RKO prendevano per loro tutte le luci e a noi non restava che illuminare i set con i mozziconi di sigaretta».

Noir

Riportata all’aneddotica, la genuinità del protagonista de Le catene della colpa ha del vero. Perché nell’incertezza della definizione, critici e teorici ripiegano in maniera unitaria a un’ampia descrizione di “atmosfera”. Definita da precisi elementi, modi e oggetti ricorrenti. Un atlante che ripercorra i modi di manifestarsi del noir non potrebbe infatti prescindere da un elenco degli oggetti che di esso sono testimoni. Tra tutti, quelle sigarette usate per illuminare gli studi spogliati delle luci. Presto entrate nell’immaginario collettivo, le sigarette del noir ci raccontano un’epoca e un genere oggi perduto.

«Double Indemnity», sigaretta e fumo tra oggetto e azione

Il critico cinematografico Rogert Ebert inserì le sigarette al quarto punto di un decalogo intitolato A guide to Film Noir. Nell’interessante trattazione di Ebert si ricorda come tutti nel noir siano sempre impegnati a fumare. Il protagonista di queste vicende è costantemente occupato in quella che sembra sempre l’“ultima sigaretta” prima della condanna. Sicuramente lo è nel finale di Double Indemnity.

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Nel film diretto da Billy Wilder nel 1944, le sette scene in cui MacMurray e Robinson dialogano sono sempre introdotte, interrotte o mediate dalla necessità di accendere una sigaretta (o un sigaro). Il fumo è per loro un mezzo di comunicazione. Arriva a significare più delle parole. Definisce un preciso rapporto di potere, in cui inizialmente Neff sembra predominare. Ripetuto è infatti lo sketch che vede Neff venire in aiuto dell’amico per accendere il suo sigaro.

Un rapporto di potere definito anche dalla differente altezza dei due attori, puntualmente sottolineata dalla regia di Wyler. L’incapacità di Keyes di accendersi autonomamente il sigaro ha un valore di impotenza. Molti sono infatti in questo film, come in tanti altri noir, i segnali che permetterebbero di interpretare sigarette, sigari e i loro movimenti nella narrazione, come simboli fallici. Se così fosse, adeguato sarebbe il ribaltamento di questo “rito” tra i due amici e colleghi sul finale. Neff infatti, come lui stesso afferma all’inizio del film, non solo arriverà a non ottenere i soldi, ma, soprattutto, a non ottenere la donna.

«And I didn’t get the money. And, I didn’t get the woman»

Sul finale, Walter Neff (Fred MacMurray), scoperto dall’amico e collega Barton Keyes (Edward G. Robinson), tenta di scappare dall’ufficio da cui stava narrando i fatti della propria sventura, per poi cadere invece a terra, ferito, e decidere così di abbandonarsi all’estrema boccata. La scena vede Neff, steso a terra, prossemicamente sotto all’amico.

«You’re not smarter Walter, you’re just a litte taller», lo aveva ammonito Keyes quando ancora era all’oscuro di tutto

«Le catene della colpa», fumare come combattere

Non è però Double indemnity a essere citato da Rogert Ebert come massimo esponente dei film in cui «everybody is always smoking». Anche detti noir. L’esempio portato dal critico è Le catene della colpa, film del 1947 con Robert Mitchum e Kirk Douglas.

Nella prima scena vediamo un gangster accendersi una sigaretta e lanciare il fiammifero appena utilizzato contro un giovane girato di spalle. Il gesto non caratterizza esclusivamente il personaggio che l’ha compiuto, aiuta a chiarire i rapporti di forza presenti in scena. Ne Le catene della colpa è diversificato l’utilizzo della sigaretta come oggetto significante. Difatti lo stesso gangster presentato in apertura osserverà più avanti, in rigoroso silenzio, Robert Mitchum scagliare una sigaretta sul pavimento. Nel film di Tourneur chi detiene il controllo della situazione fuma, o accende, distrugge, ruba o butta sigarette.

Interessante come i dialoghi tra il personaggio interpretato da Robert Mitchum e quello interpretato da Sirk Douglas, affogati nei non-detti, prendano le sembianze di scontri all’arma bianca, dove quest’ultima è la rispettiva sigaretta. La prima scena in cui li vediamo incontrarsi sembra addirittura una preparazione al duello, in cui Douglas propone una sigaretta a Mitchum e questo si dichiara già fornito, ossia già pronto allo scontro.

«Cigarette?»,
«Smoking.»  

Tra storia, vizio e società

Secondo quanto riportato anni dopo da Mitchum, quello scambio di battute fu improvvisato. La costante presenza di fumo nell’aria (spesso capace di rendere incerta la definizione dell’immagine) era dettata non solo dalla costruzione della scenografia come pensata da Tourneur. Ma anche da una semplice abitualità delle sigarette sul set.

«We never thought about it. We just smoked»

Il rapporto tra fumo “sceneggiato” e fumo d’abitudine ci permette di collocare la sigaretta nel quadro storico del film noir.

Il fumo in questi film non è infatti solo un rispecchiamento dello stato d’animo dei suoi protagonisti. È anche ciò che più accomuna attori e spettatori. Bisogna infatti tenere a mente che film emblematici del noir, come Il Grande Sonno di Howard Hawks, I gangsters e Lo Specchio Scuro di Robert Siodmak, furono distribuiti nelle sale lo stesso anno in cui, come in tutti gli anni precedenti e per molti a venire, per le strade delle città un comune cittadino americano poteva soffermarsi su pubblicità davvero agghiaccianti. «More doctors smoke Camel than any others cigarettes», recitava un noto slogan della R.J. Reynolds Tobacco Company.

La sigaretta era la testimonianza della normalità dei suoi personaggi. Essa infatti partecipava a quell’insieme di richiami alla modernità che fecero del noir un genere particolarmente vicino ai suoi spettatori, i quali erano sì affascinati dall’intensità esistenziale e alienante che le vicende trasmettevano, ma anche dal fatto che queste fossero vissute da personaggi che agivano come loro. Fumando come loro in un gioco reciproco a emulare da un lato l’attore e dall’altro lo spettatore. 

La Dark Lady deve fumare

Sempre grazie a Le catene della colpa abbiamo modo di osservare come la sigaretta sia strumento di definizione di quelle dark ladies di cui tanto si è parlato in relazione al noir. Nel film di Tourneur, quando Robert Mitchum incontra Jane Greer, e se ne innamora, non si accende (come in molti altri incontri) una sigaretta. La osserva fumare. Ne è sottomesso. Mitchum fumerà in presenza di Greer solo quando i rapporti di forza inizieranno a variare.

Il rapporto tra la figura femminile e il fumo nel noir è certamente ulteriore testimonianza di quella referenzialità con il presente. Ma anche uno strumento simbolico molto potente. È così che a definire la dark lady per eccellenza, Phyllis Dietrichson di Double Indemnity, interpretata da Barbara Stanwyck, è tanto la cavigliera subito notata da Walter (serviva «per farla sembrare più sordida possibile» raccontò Billy Wilder), ma soprattutto quella fumata in penombra a conclusione del film.

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Quando Walter si reca da Phyllis per confessarle di aver scoperto da Lola il suo torbido passato, l’inquadratura mostra sullo sfondo l’ombra di Fred MacMurray stagliarsi sul muro accanto alla porta che si apre. In primo piano il fumo della sigaretta accesa dalla Stanwyck si diffonde rendendo ancor più torvo l’ambiente. Lo script originale riporta: «She sits down and waits, quietly smoking. There are fottsteps outside the house».

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In quella sigaretta che Barbara Stanwyck dimezza in due tiri (il più lungo dei quali compiuto mentre MacMurray entra in casa, come a prepararsi con la già citata “ultima sigaretta”) c’è tutto il potere della donna nel film noir. Lei, in una poltrona che è un trono, fuma a gambe incrociate realizzando un chiasmo tra gli elementi che la caratterizzano: la sigaretta nella mano destra e la cavigliera spostata nell’incrocio verso sinistra. La dark lady e le sue peculiarità. Forte fino all’ultimo, anche in quella che è la sua ultima apparizione, a tal punto che pur essendo Walter ad essere giunto da lei, è lei che si proclama: «In Here, Walter», e via con un altro tiro di sigaretta.

Fumo e noir, insieme da sempre

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The Maltese Falcon, adattamento dell’omonimo romanzo di Dashiell Hammett e diretto da John Huston nel 1941, è comunemente identificato come il primo esempio di film noir. Sempre il critico Roger Ebert in The Great Movies parla di «first major film noir». È dunque emblematico che non si sprechino aneddoti relativi alle sue scene contenenti un gran numero di sigarette.

Ad esempio, secondo quanto riportato da numerosi membri del cast, Jack Warner, produttore della pellicola, non era affatto felice del quantitativo di personaggi intenti a fumare. È noto che nel 1941 il produttore diffuse un promemoria in cui invitava a ridurre le scene di fumo, ricavandone però un risultato totalmente opposto. Humphrey Bogart, Peter Lorre e John Huston, che stavano lavorando all’adattamento del libro di Hammett, aumentarono le sigarette presenti in scena. Fu poi Lorre a convincere Warner della necessità di questi piccoli oggetti al fine del film. Forse il noir, senza questo “scherzetto”, non avrebbe avuto le forme che poi ne distinsero l’atmosfera.

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A impressionare in The Maltese Falcon è inoltre la perfezione, forse mai più raggiunta allo stesso modo, delle sigarette fatte a mano che i protagonisti fumano in scena. È possibile in tal senso notare come il montaggio venisse sapientemente utilizzato per far credere che il detective Sam Spade, il personaggio interpretato da Humphrey Bogart, realizzasse davvero a mano le perfette sigarette fumate di scena in scena.

Uno di questi escamotage è presente anche all’inizio della pellicola, quando una prima inquadratura ci mostra Bogart stendere il tabacco sulla carta bianca, quella successiva si sposta sulla segretaria e infine si torna su Bogart. Intento ora a maneggiare un’incredibilmente perfetta sigaretta, ovviamente messagli in mano nello stacco tra un’inquadratura e l’altra. Se ne evince una costruzione dell’immagine e un relativo montaggio che di sequenza in sequenza tiene in considerazione allo stesso modo attori e rispettive sigarette.

Più avanti nel film possiamo notare come la sigaretta, questa volta realizzata da Effie (Lee Patrick) “compaia” senza bisogno di stacco. Questo perché tenendo abilmente la mano destra verso l’obiettivo, Lee Patrick finge di arrotolare una sigaretta mentre con la sinistra si allunga per raccogliere quella già pronta. Per poi porgerla con eleganza a Bogart. Sei sono le scene in cui Humphrey, grazie al montaggio, realizza una “perfetta” sigaretta, mentre innumerevoli quelle in cui semplicemente l’accende.

Un gioco di fumo e specchi 

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C’è un modo di dire anglosassone che sembra chiosare il noir: Smoke and Mirrors. Retaggio di una credenza paranormale nata intorno al ‘700, il detto viene ora utilizzato per definire qualcosa che si crede vero, che sembra vero, ma non lo è. Esattamente come il soggetto del noir. Sempre ambiguo, avvolto da un fumo che è manifestazione fisica di fantasmi interiori, ma al contempo espressione di un contesto, la città, che cinge chi la abita di una nebbia artificiale, prodotta da ogni singolo individuo alienato ed emarginato.

Smoke and Mirrors, perché il noir è stato lo specchio di un periodo (per la precisione Lo specchio scuro, ci dice il film di Robert Siodmak), e difatti di specchi spesso si riempì, come nell’emblematico caso di The Lady From Shangai (1947) di Orson Welles, ma anche e soprattutto di un’inafferrabile fumo diventato simbolo di un modo di pensare l’essere umano. Perché come afferma Marlisa Santos in The Dark Mirror: Psychiatry and film Noir: «Il noir mostra che tutto è un’illusione fatiscente».


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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