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Firestarter, quando Stephen King arriva al cinema non scatta la scintilla

In sala dal 12 maggio, Firestarter sbaglia la composizione dei rapporti umani e perde lo spettatore per ingiustificabile pigrizia

12 minuti di lettura

In sala dal 12 maggio e forte di una discreta attesa, Firestarter brama due conferme: vuole surclassare l’originale dell’84 e al contempo essere un buon adattamento dell‘omonima opera scritta nel 1980 da Stephen King.

Sfide difficili che la Blumhouse, Studios al centro di molta produzione Horror contemporanea, non è nuova supportare. È con rammarico però che neghiamo a Firestarter la strenuamente ambita pacca sulla spalla: il film non è tra i migliori King portati sul grande schermo e barcolla incerto allo stesso livello del suo predecessore.

Ma lo spettatore ignaro di tali premesse è fatto salvo dai confronti e dunque premiato da un buon Horror? Non proprio. Con il suo stringato minutaggio (64 minuti), Firestarter fallisce nel world-building di una realtà in cui i super poteri sono reali ma spaventano chi li possiede, allarmano il governo e lasciano tracce indelebili su chiunque ne venga a contatto.

Il presupposto promesso è una vicenda di famiglia, che si guarda attorno alla ricerca della sintesi più arguta. C’è il rapporto padre-figlia tra La Strada di McCarthy e il primo The Last of Us, un po’ di X-men in chiave dark, l’America rurale cara all’Horror e ovviamente un sano complotto governativo.

Eppure, questo Frozen del terrore è un passo falso che mina una volta in più le speranze dei kingiani incalliti di ritrovare al cinema le atmosfere tanto amate nei libri. Togliamoci un termine ingombrante: horror. Se cercate la paura, guardate altrove. Se pensavate invece di escludere Firestarter dalle visioni di questi giorni per via del genere dichiarato in sinossi, non preoccupatevi: lo spazio per i sussulti è esiguo e siamo certi non bastino un paio di brevissimi dettagli su un pezzo di pelle ustionata a rovinarvi la serata. A farlo è ben altro, come l’assenza di un reale conflitto che animi le vicende e la sensazione che la sofferenza del padre per la figlia sia del tutto fiacca e di passaggio.

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Da anni i genitori di Charlie fuggono dalla verità. Possessori anonimi di poteri straordinari – lui un telepate, lei psicocinetica – hanno dato alla luce l’essere più potente e pericoloso mai esistito. La figlia è infatti capace di generare e manipolare ondate di fuoco dall’incalcolabile potenza. Una bomba nucleare nel cuore di una bambina inconsapevole ma presto costretta a realizzare che la sua vita è una storia del tutto nuova.

La sfortuna della famiglia sembra avere avuto origine dal famigerato Lotto-6, un esperimento governativo a cui i genitori di Charlie parteciparono in giovane età ottenendo così i propri poteri, poi trasmessi alla figlia. Il risveglio dei poteri rivela l’identità di Charlie, la quale è così costretta a fuggire ancora una volta.

Il padre, interpretato da uno Zac Efron alle prese con il ruolo di genitore atipico, non ha mai voluto che la figlia imparasse a controllare i suoi poteri. Charlie è dunque un pericolo per chiunque le si ponga davanti, una pessima notizia per i suoi inseguitori. Alle calcagna ha infatti l’intera sezione CIA, interessata a raccogliere i frutti e a sedare le minacce del Lotto-6.

Quest’ultimo punto rappresenta subito un problema che Firestarter non sormonta mai. I nemici della famiglia protagonista – una specie di Incredibili senza i costumi e le ambizioni da eroi, ma con JackJack in modalità diavolo come personaggio principale – tradiscono subito il ruolo da cattivoni senza volto. Mandante della cattura è la donna a capo della sezione CIA, interessata ai nuovi super esseri e la cui caratterizzazione si esaurisce troppo presto. Le ragioni che la muovono (al di là del ruolo rivestito) non sono concesse allo spettatore, il quale è disposto ad accettare le zone d’ombra relative al progetto Lotto-6 (in attesa magari un sequel) ma soffre l’idea che per l’intera durata della vicenda sia lasciato in soffitta il motore primo degli avvenimenti.

Ryan Kiera Armstrong, giovanissima e discreta, prova a sfumare la protagonista tra paura di sé e paura per gli altri. Le gittate di fuoco che fatica a controllare rappresentano un incubo vivente di cui non ha controllo. La resa degli attacchi, impulsivi e sofferti, cede il passo a un limite tecnico che non inficia Firestarter come invece sentiamo di poter affermare per i rapporti che vorrebbero dominare le vicende.

Un rapporto padre figlia che non scalda

Oltre all’inconsistenza del nemico – il quale nella sua banalità finisce per identificarsi con una vaga e un po’ retrò idea di governo – il film nato dalle parole di King non riesce a cingersi ai suoi protagonisti. L’uscita in scena della madre, di cui la reazione della figlia e del marito è primo sintomo di una scrittura frettolosa, abbandona il padre e Charlie a una fuga in solitaria. Come anticipato, la mente corre a La Strada, ritrovandovi però solo i contorni di una vicenda ben più stratificata.

L’approccio di Keith Thomas non manca di carattere ma non stupisce. Esordio e conclusione sembrano cercare in particolare un’atmosfera dal gusto vintage, spesso riuscito (soprattutto sul finale). Più che gli anni ’80 del libro – o della protagonista di Stranger Things che qui e là può capitare di ricordare in questa storia di potere, affetto e paura – ricaviamo una vaga idea anni ’70. La paranoia dell’inseguimento, i segreti di un governo alle calcagna e le musiche cercano di portare Firestarter su un piano diverso dal contemporaneo.

Se dunque il film cerca fortuna con un’operazione abbastanza comune, ossia il raccontare una versione alternativa e cupa dei superpoteri, non siamo di certo di fronte a un The Boys e al suo sfrontato modernismo politico e sociale. La faccenda è invece più contenuta e domestica. Per quanto la fuga dal governo possa ampliare le vicende, il focus resta sempre legato ai movimenti di padre e figlia. Per questo riscontrare limiti nel confronto dei due è un elefante troppo grande per una stanza che, tra l’altro, va pure a fuoco.

L’esperienza del fuoco te la consiglio

Mariano Giusti (Corrado Guzzanti), Boris

Firestarter, che musica!

Ma attorno al falò di limiti siete anche un grande pregio: le musiche di John Carpenter, Cody Carpenter e Daniel Davies sono un tesoretto da portare con sé, tra i pochi beni da salvare alle fiamme. Il trio ha già collaborato con la Blumhouse, nel remake di Halloween datato 2018. Anche qui, il risultato è di livello, persino troppo. Il tentativo di raccordo tra immagini e note rivela l’inconsistenza di quanto accade sullo schermo, incapace di restituire la tensione, il trasporto e l’incertezza annunciate dalle musiche.

C’è un sottilissimo filo rosso che lega Carpenter al remake di Firestarter. Il film del 1984, che vede tra i suoi protagonisti anche una giovanissima Drew Barrymore, ma anche Martin Sheen, Louise Fletcher e Freddie Jones, doveva essere diretto proprio dall’acclamato regista. La Universal cambiò idea proprio in seguito al fallimento di box office de La Casa (1982), decidendo così di sollevarlo dall’incarico. Quella che poteva sembrare una magra e tarda consolazione, il ritorno in veste di musicista, marchia invece con il fuoco un film che altrimenti avremmo già dimenticato.

Stephen King è contento, noi no

Firestarter potrebbe rappresentare l’inizio di un nuovo universo narrativo. Il progetto, sulla carta, è promettente. D’altronde il lavoro di world-building – pessimo nel film ma estraibile con cura dalle oltre 500 pagine di Stephen King – sembra incontrare gli interessi degli spettatori contemporanei. Un mondo abitato da supereroi, ma raccontato come un grande e credibilissimo incubo sociale.

Stephen King, questa volta, si dice contento. L’adattamento l’ha convinto, più del suo predecessore. Noi un po’ meno, ma le idee di King per il grande schermo non sono mai state garanzia di qualità. Lo scrittore si dice speranzoso per la realizzazione di una trilogia, di cui sembra si potrà parlare una volta conteggiati i risultati di Firestarter.

Il finale promette che quanto accaduto sia solo un timido inizio: il meglio deve ancora venire, ma intanto Firestarter delude per uno sviluppo troppo frettoloso. La storia mantiene il suo fascino (d’altronde il soggetto è di King: è quella è sì, spesso, una garanzia) ma calato in immagine sembra trovare una superficie su cui ogni personaggio o dolore scivola via senza la grazia delle fiamme che dovrebbero avviluppare il film e che invece scoppiettano lente sino a spegnersi nel silenzio generale. Anzi, qualcosa si sente: le note di Carpenter. Non una consolazione da poco, ma non certo quella che ci aspettavamo.


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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