Tratto dall’omonima serie di videogiochi, Five Nights at Freddy’s è un horror atteso a lungo, nato da un percorso produttivo travagliato iniziato nel lontano 2015 e finalmente in arrivo nelle sale italiane il 2 novembre. La storia è quella del giovane Mike, che è costretto ad accettare il lavoro di guardia notturna in un vecchio locale abbandonato e pieno di misteri inquietanti.
Il film è diretto da Emma Tammi e ha come interpreti principali Josh Hutcherson, Piper Rubio e Matthew Lillard.
La trasposizione di un videogioco
Entrare nel mondo dei videogiochi, prendere un piccolo fenomeno di culto come l’indie horror Five Nights at Freddy’s e trasporlo in un’opera cinematografica non è così semplice come potrebbe sembrare. Nel corso degli anni si sono susseguiti numerosi tentativi di trasposizione da un soggetto videoludico, per lo più fallimentari, basti pensare a Resident Evil, Silent Hill, Doom e tanti altri, anche non legati al genere horror.
Sebbene questa tendenza abbia dato vita anche a ottime trasposizioni come la recente The Last of Us, ci si addentra in un territorio spinoso e pieno di insidie, sia perché evidentemente si tratta di un linguaggio diverso che si plasma su esigenze, caratteristiche e modalità differenti, che rendono quantomeno complessa la sua trasposizione al cinema, sia perché l’intenzione di cullarsi sugli allori di un fandom già presente e di un pubblico già fidelizzato può portare in realtà a una negoziazione fallimentare tra il riferimento fan-service a una mitologia preesistente e la necessità di un adattamento a una struttura narrativa e produttiva cinematografica che si regga sulle proprie gambe.
L’ultimo film targato Blumhouse cade proprio in tutti questi aspetti, anche perché si tratta di un esperimento ancora più complesso se si pensa al soggetto di partenza. La serie indie horror di Five Nights at Freddy’s è, infatti, un survival game con modalità di gioco point-and-click che nutre sì la sua mitologia interna, ma lo fa attraverso delle incursioni di frammenti e easter eggs, azzerando la storia e intrattenendo col videogiocatore un rapporto esperienziale di tipo horrorifico ridotto all’essenziale, che funziona per l’atmosfera, il sonoro, la tensione di un pericolo imminente, finestre temporali che si chiudono, jump scares e un’esperienza di gioco challenging.
Il problema dell’horror che non fa paura
Se si guarda al materiale di partenza e al suo immaginario horror, così come alla natura negoziale del trailer, emerge che l’attitudine con cui ci si propone di plasmare il soggetto è evidentemente legata a questo genere. Tuttavia, la componente horror è per lo più assente e il film risulta per nulla spaventoso, ma, anzi, non riesce a costruire neppure una tensione emotiva.
Ciò avviene sia perché le sequenze nascono e muoiono senza dare il tempo di una costruzione elaborata della suspense, sia perché, giocando pericolosamente con il soggetto (in particolare qui il riferimento è agli animatronics) finisce talvolta per generare momenti che vanno dall’assurdo all’involontariamente comico, mettendo a dura prova la sospensione dell’incredulità dello spettatore e incrinando i presupposti per la paura. Il meccanismo originale della paura del videogame si fondava interamente sullo switch del videogiocatore da una telecamera all’altra, allo scopo di monitorare l’avvicinamento dei mostri e proteggere la propria incolumità virtuale. È una soluzione con grande potenziale ma praticamente assente nel film.
A inficiare ulteriormente la natura horror di Five Nights at Freddy’s si aggiunge la persistenza di una sottotrama secondaria, quella della sorellina Abby (Piper Rubio) e della caricaturale zia Jane (Mary Stuart Masterson) che, nel ruolo di villain aggiunto, vorrebbe strappare l’affidamento dalle mani di Mike (Josh Hutcherson). Ciò aggiunge una componente di melodramma che, da un lato, continua a spezzare il terrore notturno del Freddy Fazbear’s Pizza con sequenze diurne, quindi deteriorando la tensione, e dall’altro risulta poco utile ai fini del racconto, poiché abbozzata, trattata con superficialità e con personaggi macchiettistici e monodimensionali.
Il mondo di Five Nights at Freddy’s
Una parte riuscita riguarda tutti gli elementi di riferimento al videogioco. Tutto il comparto scenografico segue con attenzione le location originarie, cioè in riferimento al worldbuilding, se così si può chiamare, il film funziona e ricrea con cura i luoghi del film; anche le inquadrature delle telecamere sono fedeli all’originale ma, come si è detto, questa componente non sfrutta mai a dovere il suo potenziale orrorifico. Allo stesso modo le fattezze degli animatronics seguono con fedeltà il videogioco e riescono a rendere la materialità un po’ rétro del loro aspetto esteriore e la pericolosità metallica della loro consistenza interna, congiuntamente all’inquietudine che riescono a trasmettere i loro occhi senza vita.
Il problema è che dietro questo grande lavoro traspositivo si nascondono le insidie di una scrittura che latita nel rendere il mondo della storia qualcosa di più di un mero décor citazionista. In sostanza, c’è un grande sfondo che si limita a rimanere un fondale inerte senza coesione col microcosmo del racconto, continuamente spezzato da momenti melodrammatici e da attimi di sogno che fuggono dai luoghi dove il terrore può prendere piede.
Un’occasione sprecata
Giunti alla fine di Five Nights at Freddy’s si rimane con l’amarezza di un’occasione sprecata: un’opera forte del potenziale di un soggetto interessante che non è riuscita a strutturare una mitologia all’interno di un racconto, soprattutto a causa della scrittura inconsistente. La narrazione è schematica e procede spezzettata mentre dei personaggi piatti sembrano evolversi solo per un’esigenza narrativa stringente. Le sequenze appaiono pensate come a sé stanti e piuttosto che un’evoluzione fluida del racconto ci si accorge di una frammentazione acuita da scarti tonali involontari e dell’assenza di tensione o paura.
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