Uno spettacolo mediatico in cui ciò che conta davvero è il come un evento viene presentato al pubblico piuttosto che l’evento stesso: questo il ritratto, ironico e crudele al contempo, del giornalismo televisivo francese che ci offre France, il nuovo film di Bruno Dumont, presentato in concorso al 74º Festival di Cannes e uscito nelle sale italiane il 21 ottobre.
Tra reportage di guerra dove continui ciak per “uscire al meglio” e interviste sapientemente montate e manipolate a miliziani anti Isis trasformano scenari dilaniati da conflitti armati in improvvisati set cinematografici, e la brillante conduzione di Uno sguardo sul mondo, trasmissione serale di approfondimento politico al top degli ascolti simile al nostrano Otto e mezzo, facciamo la conoscenza della giovane France de Meurs (una splendida Léa Seydoux), amatissima star del giornalismo d’oltralpe capace di dar filo da torcere nientemeno che al Presidente della Repubblica Emmanuel Macron (quello vero: il politico si è prestato ad un cameo in una conferenza stampa all’Eliseo nella primissima scena del film).
Alle continue richieste di selfie per strada e ai facoltosi impegni professionali fa da contraltare una vita privata non propriamente soddisfacente, trascorsa in una lussuosa casa simile a un mausoleo dove il marito scrittore (Benjamin Biolay) guadagna cinque volte meno di lei e usa la sua fama per pubblicizzare i propri romanzi, e il figlio è in evidente carenza di affetto.
È proprio mentre accompagna il piccolo Jojo a scuola nel trafficatissimo centro di Parigi che France investe accidentalmente un rider magrebino, e questo semplice fatto cambierà per sempre la sua vita. Il soccorso prestato al giovane, che se la cava con una gamba rotta, sarà la prima pedina di un effetto domino che porterà ad un incontro finalmente non mediato dalle sovrastrutture televisive con gli ultimi della società francese.
Tra realtà e finzione
Un’epifania che mostrerà alla giornalista tutta l’inconsistenza dell’immagine pubblica su cui ha costruito carriera e notorietà, e le numerose contraddizioni morali di ciò che il suo lavoro contribuisce ad alimentare: un grande circo mediatico che mescola verità e finzione e mistifica la realtà, dando in pasto al pubblico una poltiglia già masticata, digerita e distorta.
Ecco che, da una vita frenetica e brillante, per la protagonista si passa a ciò che ha tutta l’aria di essere una crisi depressivo-esistenziale mista a sindrome da burnout. France non è più la rampante faccia di bronzo del network di notizie più importante di Francia, ma una giovane donna insicura e fragile che rimette in discussione carriera e notorietà. E piange.
Piange senza motivo, in strada, nel privato, dietro le quinte della sua trasmissione dopo un battibecco con un ospite particolarmente critico nei confronti dei giornalisti, in diretta tv durante le interviste dei rotocalchi che è abituata a padroneggiare, e nonostante le lodi sperticate unite a continui incoraggiamenti dell’assistente personale nonché social media manager nonché migliore amica e life coach tutto in uno Lou (Blanche Gardin).
Al suo analista, la semi-diva dice di non sopportare più gli sguardi della gente. Si prospetta allora inevitabile il ritiro in un’esclusiva clinica privata sulle Alpi svizzere per clienti ricchi e facoltosi allo scopo di “rimettersi in pista” il prima possibile, ma il flirt con un giovane professore di latino senza televisione (che non si rivelerà chi dice di essere) sarà la proverbiale goccia che farà traboccare il vaso e porterà alla spettacolare e drastica decisione di lasciare la TV, annunciata in diretta dalla stessa France dal suo salotto politico serale, con un lunghissimo primo piano del volto bagnato di lacrime della star che dà l’addio alle scene.
Una decisione che non segnerà certo la fine per l’icona del giornalismo televisivo francese, e che darà il via ad una girandola di eventi in cui, tra giornalisti in incognito e sviste in sala regia, la tragedia sarà inevitabile.
Lo sguardo è sicuramente il protagonista morale dell’opera, e Dumont ce lo fa capire con un uso massiccio di primi e primissimi piani: ora delle espressioni ammiccanti alla telecamera della giornalista e reporter rampante, ora dello sguardo trasfigurato dal dolore di una donna travolta da un sistema che la nutre e la fagocita allo stesso tempo, ora rivolgendo l’attenzione alla prospettiva (probabilmente la più importante) del pubblico “al di là” dello schermo, e a ciò che ad esso viene fatto percepire come vero: indicativa, in tal senso, la scena della traversata dei profughi sul Mediterraneo, episodio in cui France non esita a farsi riprendere a bordo di un’imbarcazione di fortuna, mescolata agli ultimi della terra, salvo poi proseguire il tragitto a bordo del lussuoso motoscafo privato della stampa scortato dalla Guardia Costiera.
Naturalmente, nella sua trasmissione andranno in onda soltanto le immagini dalle quali sembrerà che l’eroina del giornalismo abbia effettivamente attraversato il Mediterraneo in compagnia dei fuggitivi.
Una resistenza sia tragica che eroica, quando non tragicomica, quella di France (altra figura femminile portata sullo schermo da Dumont dopo il dittico su Giovanna d’Arco), che non a caso è chiamata dal regista col nome della nazione di cui si fa simbolo, scelta che si dimostra ancor meno involontaria se prendiamo in analisi anche il cognome De Meurs, che si pronuncia allo stesso modo di mœurs (letteralmente,”dei costumi”): una Francia incapace di confrontarsi davvero con il reale e la sua violenza e una protagonista che rappresenta l’elemento umano, conformato ma difettoso, di quella trasfigurazione della realtà promossa da un sistema mediatico che è diventato una macchina concentrata sul fare rumore e creare scalpore.
Di tale macchina si fa incarnazione perfetta l’assistente tuttofare Lou, probabilmente il personaggio più realistico del film. Donna grottesca e superficiale, prende la forma della propria funzione e si fa portatrice dell’essenziale ambiguità morale di un sistema mediatico barbaro il cui messaggio fondamentale alla desolata France sembra essere “IL PEGGIO è IL MEGLIO: bene o male purché se ne parli. Tutto è messa in scena”. Il film invece, col suo colpo di scena finale, ci fa capire quanto in fondo la realtà, per quanto stramba, sgradevole e spesso estremamente drammatica, sia l’unica cosa che ci restituisce davvero a noi stessi.
Il dilemma degli eroi
Una messa alla berlina del sistema mediatico e politico occidentale dunque, e una feroce disamina di un paese che non sa o non è messo in grado di confrontarsi con l’infinita bassezza del reale. Nelle parole del cineasta, in un’intervista rilasciata a movietele.it:
“Resta il fatto che i media conformano la realtà alla propria ideologia, sfruttando opportunamente gli eventi di attualità come una fonte continua di indottrinamento, eventi sfruttati e prodotti secondo la gerarchia dei valori del proprio settore e per la propria continua propaganda. Tutto ciò semplifica la realtà per conformarla ai propri standard: una finzione quindi, di una realtà ricostruita, schematica e geometrica. Fortunatamente questa “cinematografia” dell’attualità, la sua finzione, è anche la sua salvezza. Conserva ancora la libertà di una rappresentazione virtualmente genuina della realtà. La bruttezza del mondo ai margini della società che viene rappresentata dai media dunque non è fatale, ma si abbina a questa possibilità alternativa della sua espressione. Questo dilemma è invero il dilemma degli eroi – che anche noi dobbiamo essere a livello individuale – eroi che continuano a combattere l’importante battaglia umana. Il sistema mediatico non è esente da questo dilemma per via dell’elemento umano che opera al suo interno: da qui deriva la sua eroina completamente cinematica, alternativa ed esasperata: France de Meurs.”
Nel suo esaurimento nervoso, France è l’esempio perfetto di una coscienza tragica perfettamente illuminata e perfettamente umana. In una parola: eroica.
Articolo di Benedetta Pancrazi
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