François Truffaut, uno dei più grande maestri del cinema moderno, nasce a Parigi il 6 febbraio 1932. Sin da questa data, colui che verrà indicato come «l’alfiere della Nouvelle Vague», vive un’esistenza segnata da “intoppi”, che si susseguiranno culminando, troppo presto e ingiustamente, nella morte per tumore avvenuta nel 1984.
Di padre ignoto, figlio di una ragazza troppo giovane e lontana per potergli dare amore, viene riconosciuto dal nuovo compagno della madre, l’architetto Roland Truffaut, ma passa l’infanzia insieme alla nonna materna, con cui vive fino all’età di dieci anni. È quest’anziana signora a trasmettere a François l’amore per la lettura: testi classici e moderni, letti ad alta voce e poi fatti propri.
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Saranno i libri a fungere da surrogato emotivo di una madre assente, troppo vanesia ed egocentrica per occuparsi di un figlio che la disturba con i suoi giochi e le sue richieste di bambino: «mia madre non sopportava i rumori e m’impediva di muovermi e parlare per ore e ore. Allora io leggevo: era la sola occupazione a cui potessi dedicarmi senza disturbarla. Durante l’occupazione tedesca ho letto moltissimo e poiché stavo spesso solo, mi misi a leggere i libri degli adulti […]. Arrivato a tredici o quattordici anni comprai, a cinquanta centesimi al pezzo, quattrocentocinquanta volumetti grigiastri, Les Classiques Fayard, e mi misi a leggerli in ordine alfabetico, senza saltare un titolo, un volume, una pagina».
All’amore per la lettura si accompagna sin da subito quello per il cinema, con film divorati al ritmo di tre al giorno, di nascosto, scappando di casa ed entrando al cinema dalla porta sul retro, per evitare di pagare il biglietto.
La Nouvelle Vague arrive!
François è un ragazzo turbolento, vive sulla propria pelle il rifiuto della madre ed il dramma di non sapere chi sia suo padre (soltanto molti anni dopo, approfittando di esigenze legate alla realizzazione di Baci Rubati, contatterà un investigatore privato per rintracciare il genitore biologico che, tuttavia, non vorrà mai incontrare). Va male a scuola, è svogliato ed insofferente e spesso salta le lezioni proprio per infilarsi in biblioteca o in un cinema. Mandato in colonia poco dopo ne fugge per diventare magazziniere ma, come lui stesso racconterà, Roland Truffaut ritrova le sue tracce e lo consegna alla polizia: « Sono stato ospite per molto tempo del riformatorio di Villejuif da cui mi fece uscire André Bazin. Sono stato manovale in un’officina, poi mi sono arruolato per la guerra d’Indocina. Ho approfittato di una licenza per disertare. Ma, dietro consiglio di Bazin, ho raggiunto il mio reparto. In seguito sono stato riformato per instabilità di carattere».
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È l’incontro con Bazin, figura paterna da sempre cercata, che aprirà le porte al ventunenne Truffaut alla critica su Chahiérs du Cinema, rivista da poco fondata e destinata a diventare la più prestigiosa nel campo della Settima Arte. Qui, brillando per vivacità e passione, conosce Claude Chabrol, Jacques Rivette, Jacques Demy, Eric Rohmer, Jean-Luc Godard ed ecco che in un attimo «La Nouvelle Vague arrive!», nasce quella Nuova Ondata francese pronta a scardinare in toto il cinema del passato.
Il diavolo è quattro
Esordisce alla regia con un cortometraggio del 1954, Une visite e dì lì a poco scrive la sceneggiatura di Fino all’ultimo respiro di Godard, l’amico-nemico fino all’ultimo stimato e temuto. Ma è la proiezione del 4 maggio 1959 al Festival di Cannes a segnare la svolta per François Truffaut: I 400 colpi inaugura una nuova stagione cinematografica, autoriale e più intima. È inoltre l’inizio di un nuovo ciclo, quello di Antoine Doinel, alter ego del regista e archetipo di tutto il suo mondo. «Il diavolo a quattro» Doinel/Léaud viene seguito in tutte le sue peripezie, figlie di una situazione familiare difficile e di uno stato d’animo smarrito, che si chiudono in un finale giudicato tra i più belli della storia del cinema.
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E il pestifero Antoine tornerà in altre quattro pellicole (Antoine e Colette ne L’amore a vent’anni, Baci rubati, Non drammatizziamo…è solo questione di corna e L’amore che fugge), una sorta di percorso di formazione cinematografico e di educazione sentimentale firmata Truffaut.
Le passioni giovanili mai sopite del francese affiorano chiaramente nelle sue pellicole: libri e autori citati in maniera più o meno esplicita (si pensi a Fahreneit 451 o Jules e Jim, ma anche L’histoire di Adèle H.) ma anche film e cinema posti al centro di opere manifesto come Effetto notte, vincitore di un premio Oscar che consacrerà Truffaut presso un pubblico più vasto.
Il suo è un cinema del sentire, che insiste su persone e stati d’animo perché le idee sono meno interessanti degli esseri umani che le hanno. All’autobiografismo, spesso condito da camei e partecipazioni, il regista affianca l’interesse per gli adolescenti e le loro inquietudini, la morte, la vita di coppia e le donne, quasi sempre indipendenti, belle e dalla personalità spiccata ma al tempo stesso assenti e aride, proprio come la giovane ragazza che lo aveva messo al mondo.
Difatti François Truffaut è anche L’uomo che amava le donne, come recita il titolo di un suo film e, forse alla ricerca di un amore mai ricevuto nel passato, s’invaghisce delle protagoniste dei suoi film (Jeanne Moreau, Fanny Ardant) amandole, ammirandole spesso tradendole.
Versatile e dall’insaziabile sete di sapere, non smette mai d’imparare ed apprezzare i grandi maestri: Alfred Hitchcock, su cui scriverà un brillante saggio, Renoir, Welles, Bergman, Rossellini e Fellini. Suggestioni cinefile che hanno contribuito a plasmare la sua capacità di autore, contribuendo a forgiare una sensibilità che darà vita ad un cinema di cui non si è mai sazi.
Con Truffaut è nato un nuovo rapporto tra cinema e spettatore, i suoi film sono stati in grado di produrre emozioni forti parlando un linguaggio il più semplice possibile. «Devo sentire che sto creando intrattenimento», ripeteva di continuo. E davvero lo spettatore, guardando uno dei suoi film, diviene complice e amico del cineasta-narratore, un narratore spesso rimproverato, come ebbe a dire lui stesso, di preferire il cinema all’esistenza reale: «[..]ma confesso che, anche da adulto, mi sarebbe difficile cambiare, vedere le cose in un altro modo. Credo che il cinema sia un miglioramento della vita, perché è straordinario».
E che il suo cinema sia riuscito, se non a migliorare la vita, certo a renderla meno amara, questo a trent’anni dalla sua scomparsa, a François non si potrà certo negare.
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