Negli anni Quaranta, Hollywood si è tinta di un solo colore: il noir. Più che un genere, uno stile che sfugge a contorni e definizioni e al quale si deve la consacrazione di numerose dive, che raggiunsero la celebrità vestendo i panni di affascinanti e misteriose dark ladies.
Fu così anche per la bellissima Rita Hayworth, quando, nel 1946, uscì nelle sale americane Gilda, diretto da Charles Vidor; pellicola che la consegnò per sempre alla storia del cinema.
«Gilda», la trama
Johnny Farrell (Glenn Ford), uno sbandato e disonesto giocatore d’azzardo americano, vede cambiare la propria vita quando viene assunto come braccio destro di Ballin Mundson (George Macready), il proprietario di una esclusiva bisca clandestina a Buenos Aires. L’iniziale intesa tra i due uomini, però, si spezza quando Mundson ordina a Johnny di sorvegliare sua moglie Gilda (Rita Hayworth). Dal loro primo incontro, infatti, appare evidente che Farrell e la donna si conoscono già e che il ritrovarsi faccia a faccia rischia di riaccendere nei loro cuori sentimenti e rancori a lungo repressi, ma mai del tutto dimenticati.
«Gilda» e i canoni del noir
Per molti aspetti che riguardano sia la trama, sia la messa in scena, Gilda si rifà alle caratteristiche del noir classico.
L’ambientazione esotica risponde alla volontà di trasmettere allo spettatore la sensazione di smarrimento provata dai personaggi. Nel film di Vidor, la protagonista è doppiamente rinchiusa: nella lussuosa residenza del marito, soffocante gabbia dorata, e in una città sconosciuta nella quale è impossibile trovare riparo.
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Una lapidaria battuta di Gilda riassume la complessità psicologica che caratterizza i rapporti tra i personaggi del noir classico. Rita Hayworth fissa intensamente Glenn Ford e, avvicinandosi per baciarlo, gli sussurra: «l’odio è un sentimento molto eccitante». Rifuggendo le rassicuranti storie d’amore narrate dalle commedie romantiche, il noir rende più complessi i rapporti di coppia. Il tough guy e la dark lady appaiono entrambi misteriosi e tormentati e la loro relazione eccitata da una costante e palpabile tensione sessuale, fomentata tanto dalle parole – frequentissimi sono i doppi sensi – quanto dal linguaggio dei corpi, costantemente esposti e irrequieti.
Il corrispettivo visivo di tale complessità psicologica è il chiaroscuro. In Gilda, la fotografia di Rudolph Maté fa muovere i protagonisti tra luci e ombre che ne rispecchiano l’ambiguità. Sottolineata, quest’ultima, anche dalla narrazione in voice over (espediente fondamentale in un film come Detour): Johnny racconta la sua versione della storia, ma lo spettatore non può essere certo che essa corrisponda alla verità delle cose.
Una dark lady a metà
Per quanto Gilda si mostri spavalda e sicura di sé, il suo personaggio è lontano dall’attitudine scaltra e calcolatrice delle più spietate femme fatale. Non mancano, infatti, momenti in cui la donna si mostra disarmata e vulnerabile, palesando una sincerità di sentimenti che non si addice alle dark ladies in stile Lauren Bacall. Ciò rende la protagonista facile preda degli uomini, ansiosi di possederla e farne un trofeo.
Infatti, ad accomunare Gilda alle protagoniste del noir è l’oggettificazione di cui è vittima. Il suo corpo è costantemente sottoposto allo sguardo maschile, replicato dalla macchina da presa – che si sofferma morbosamente su di lei – e messo in scena tramite la rappresentazione di strumenti di visione che la spiano costantemente (come il monitor presente nell’ufficio del marito).
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Privata del controllo sulla propria vita, Gilda decide quindi di usare il suo corpo – l’unica arma che le rimane – come mezzo di ribellione. Quando la donna si esibisce cantando e ballando non lo fa per compiacere l’occhio maschile, ma, al contrario, per palesare il controllo che ha su se stessa. Così, il corpo femminile diventa irriducibile all’osservazione che vorrebbe oggettivarlo e ciò che poteva rendere la protagonista succube dell’uomo si fa suo strumento di emancipazione.
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