Classe ’84, Giulio Sangiorgio è un giornalista, critico cinematografico e animatore culturale attivo da vent’anni. È direttore responsabile di FilmTv Rivista, settimanale di cinema, televisione e spettacolo, testata di settore tra le più lette in Italia, al cui interno militano tra i più importanti critici cinematografici nostrani, che portano avanti un discorso critico di alto livello, con nomi come: Pietro Armocida, Emanuela Martini, Giona A. Nazzaro, Roy Menarini, Filippo Mazzarella, Roberto Manassero, Mauro Gervasini, Ilaria Feole e molti altri. Sangiorgio è ideatore e responsabile di corsi di cinema (professore alla Iulm), rassegne e festival (come il Milleocchi di Trieste e il Filmmaker di Milano).
Da quanto tempo scrivi di cinema? Dove hai iniziato e quando è diventato un mestiere?
Io scrivo di cinema professionalmente da quando avevo penso 20 anni, ho iniziato con una rivista che si chiamava Duellanti, nata da un cambio-evoluzione di Duel (una delle riviste più importanti degli anni 90); al tempo spostò il discorso della critica, era una rivista che insegnava ad applicare uno sguardo laterale sul cinema. Per esempio era il periodo in cui uscì Memento, per molti un filmetto, mentre per Duel poneva delle questioni e delle sfide alte, ci interessava più questo cinema imperfetto, anche industriale, ma che pone delle questioni. Non era banale, era un cambio di prospettiva. Io iniziai lì in seguito ad un workshop, poi presi subito a scrivere.
La mia prima recensione fu su La damigella d’onore (La Demoiselle d’honneur, 2004) di Claude Chabrol. Era una rivista importante Duellanti, soprattutto una scuola di critica, in cui c’era Gianni Canova, per esempio, ma soprattutto Ezio Alberione, un grande animatore culturale. Lui mi prese sotto la sua ala.
Iniziai con delle cose che se le leggo adesso non le capisco più, mi ispiravo ad una generazione di critici che aveva un linguaggio, e un pensiero, altissimo. Per esempio a quei tempi (inizio anni 2000, ndr.) chi faceva critica era quasi sicuramente una eco di Enrico Ghezzi. Poi Ezio è venuto a mancare, è cambiato il direttore e mi hanno fatto specializzare sui film hollywoodiani di consumo, action soprattutto. Film che però io trattavo con dei canoni che non erano limitati al semplice “bello o brutto” e basta, ma cercavo di spiegare come potessero creare pensiero, forma, ricadere su questioni sociali».
L’apprendistato di Giulio Sangiorgio è stato lungo: mentre lavorava per Duel, iniziò a scrivere per altre riviste, come Spietati.it e Nick (testata di costume legata al cinema) realtà con cui ha collaborato per un po’ di anni. Nel 2006 Sangiorgio ha fondato Dinamo Culturale, associazione di cinema a Lecco con cui organizza tuttora corsi e cineforum.
Sangiorgio poi continua: «Ovviamente il cinema era una passione che portavo avanti da sempre, da prima del liceo, insieme all’amore per la letteratura che, per tanti motivi, ho accantonato. Mentre scrivevo frequentavo l’università ma non così seriamente, ero più concentrato sul lavoro. Sono entrato a FilmTv con una storia un po’ rocambolesca: feci lo stage, me ne andai perché non mi piaceva, mi richiamarono e feci una lunga gavetta: prima mezza giornata, poi 3 giorni, poi una settimana. Ci son stati in seguito dei cambiamenti e rimasi uno dei pochi lì.
Nel mentre lavorai anche per i festival, Filmmaker tra i primi, con cui imparai anche la costruzione di eventi e la programmazione, cosa che facevo anche con la Dinamo Culturale, con cui fondammo un festival di cinema italiano di ricerca. Presi per un periodo il Milleocchi, festival importante molto cinefilo e radicale. Ho fatto insomma molta esperienza, incontrando tanta gente. Però sì, incominciai con un seminario che vinsi; da lì iniziai a farmi conoscere e soprattutto a farmi una visibilità tra i lettori. Non è scontato, è molto difficile nel nostro lavoro essere riconosciuto grazie alla scrittura, cosa che per me è fondamentale sia come critico che come direttore di una rivista.
Quali sono i film che ti hanno fatto appassionare al discorso critico sul cinema?
La mia prima passione critica, molto banale ma molto stimolante, è stata Stanley Kubrick. Un regista che in qualche modo ti pone sempre una sfida esegetica: è talmente tutto dettagliato sotto l’insegna di un disegno talmente preciso che diventa quasi uno sforzo enigmistico decriptarlo. Kubrick è stata la prima filmografia che ho visto per intero, leggendone anche a riguardo. Il cinema però è un testo estremamente aperto che in realtà ha a che fare con tantissime cose, quindi molto spesso l’intentio auctoris non è centrale con il valore del film, sia esso sociale, culturale o altro.
Kubrick in questo è il là, ma è anche il punto da cui distaccarsi: sono testi maniacali i suoi, chiusissimi, con funzioni programmatiche. Ma fare critica significa togliersi dalla capacità di decriptare un testo già chiuso, devi conoscere il contesto anche al di là di quella che è la volontà dell’autore. Poi, da figlio di edicolante quale sono, la mia palestra furono le riviste, tra cui quelle che ritengo essere le più importanti, le già citate Duel, Film Tv. Ma anche Fuori orario su Rai 3, programma diretto dallo stesso Ghezzi, richiedeva uno sforzo super stimolante; ti ponevauna sfida: non farsi capire per farsi capire. Mi spiego? Oggi invece se non vieni capito passi per un pallone gonfiato.
Comunque sia, le mie passioni cinematografiche erano e sono tante, come altrettanti sono stati i registi che mi hanno aperto molti mondi, Sacha Guitry per esempio. Ma Kubrick è stato sicuramente l’inizio.
Come dialogano il rapporto tra la passione per il cinema e il lavoro di critico?
Per me faccio il lavoro più bello del mondo. Sottolineo il “per me”. Nel senso che ho una passione infinita per quest’arte che curo in tutte le forme: dal dirigere una rivista che va in edicola, ad altro. Poi è indubbio che, dopo tanti anni, uno impara un po’ il mestiere. Il che significa che certi film che vengono a proporti capisci subito dove vogliono andare a parare. Diciamo che ad un certo punto la tua capacità di sorprenderti si setta molto più in alto. Però è anche giusto, perché un critico deve mettere in gerarchia. Cioè, impari a giostrarti in un bacino più grande, vedendo i film come il frutto di un preciso momento storico.
Poi, da direttore, una delle cose che odio di più è la gente che non ha voglia di fare niente. Nel senso che per me se uno va al cinema e non ha voglia di farlo è inutile che faccia questo lavoro. Anche perché è un lavoro che ormai è per 20/30 persone massimo in Italia, ma non di più; infatti, tutti quelli che lavorano con me come collaboratori esterni hanno altri impieghi. Penso che in generale il cinema, e la mediazione culturale, o è una passione oppure non può essere un lavoro fatto solo per campare.
Quindi sì, ogni tanto mi annoio a vedere i film, a volte li inizio e devo fermare il dito dallo schiacciare il x2, perché magari è una roba di cui potrei parlarne dopo 10 minuti. Però poi rispetti l’opera, gli dai l’agio che si merita e via così. Una delle cose importanti da critico è non aggredire mai i testi ma dar loro spazio, considerare che quello che mi annoia, mi disgusta, mi deprime, fa parte di quello che il testo sta facendo: vuol dire che sta lavorando sulla mia cultura e sulle mie aspettative.
La questione non è mai quello che vedi, ma il rapporto estetico tra te e quello che c’è sullo schermo. Quindi un film vuole delle cose da te e molto spesso quando non ti soddisfa è perché non ti sta dando quello che vuoi tu, ma non è un limite dell’opera, piuttosto sei tu che vuoi qualcosa dall’opera. Bisogna calibrare tutte queste cose, quindi sì, a volte mi annoio, ma detto questo fa anche parte del mio lavoro.
Cosa consigli ai giovani che si interessano per fare i critici?
Una cosa che noto tanto tra i miei studenti è lo scarso amore che c’è per la storia del cinema. La prima cosa, per diventare critico, è conoscerla. Sapere la storia canonica, quella proprio da manuale, senza prendere subito correnti, spiragli, o tendenze sotterranee assurde. Se non conosci la storia del cinema non conosci l’ambito in cui ti stai muovendo. Tante cose, che si vedono oggi, sono problemi che si sono già visti. La storia del cinema, così come quella della critica, non ha memoria. (Al seminario “Capire la storia del cinema”, infatti, Giulio ha definito la storia del cinema “smemorata”, ndr.).
Le grandi innovazioni di oggi sono cose viste già 50 o 60 anni fa. Nella critica similmente, però il livello è talmente tarato verso il basso che bisogna sempre ripartire da zero, e ciò compromette anche il trovare una misura con il lettore: non dargli per scontato delle cose, ma nemmeno fargli scoprire l’acqua calda tutte le volte. Il critico deve perciò avere una struttura di conoscenze e, soprattutto, andare al cinema. Non si fa critica vedendo tre film, né tanto meno leggendo i blog online o guardare YouTube. Bisogna insomma leggere la critica, è un modo per imparare, partire dai luoghi dove esiste ancora. Non demonizzo la critica online, però, io ho imparato a lavorare anche da lì .
La questione è che bisogna avere dei maestri a che siano veramente critici per diventare critici, e i maestri sono i Grandi critici. Sono cresciuto con Ghezzi, mi ha coltivato Canova, ho imparato leggendo i grandi intellettuali francesi. Ho l’impressione oggi che sia per la storia del cinema che per la critica, ci sia talmente tanta confusione e mancanza di gerarchizzazione, per cui è molto facile che un wannabe critico si perda e pensi che siano importanti delle cose che in realtà non lo sono. È una delle questioni del contemporaneo, io sono ancora dell’idea che la cultura si tramanda dall’alto al basso in maniera lineare, oggi questa cosa si è polverizzata in migliaia frammenti.
Capisco quindi che entrare nel mondo della cultura sia complicato. Anche perché nel corso di questi vent’anni non è solo aumentata la storia, ma sono aumentate anche le storie: paesi che prima non venivano considerati, figure minori che poi sono state reputate superiori. Oggi il canone sta cambiando anche da un punto di vista “inclusivo”, pensiamo alla riscrittura dei valori negli USA in cui buttano via cose fondamentali per motivi ideologici.
Il critico è insomma un mestiere difficile: non puoi farlo se non studi, guardi, leggi e anche se non hai una vaga cultura organica di sociologia, filosofia e quant’altro. Alla fine il critico è una persona che sa tanto e si specializza, se uno si specializza sull’argomento cinema e basta non può fare il critico.
Cosa consigli per non “fare indigestione” invece? Per non perdersi tra le troppe cose da guardare e leggere.
Bisogna mettersi nelle mani di persone che possano guidare. Che possano essere testi di riferimento oppure riviste, le poche che ci sono ancora. Insomma, dei luoghi dove il discorso sul cinema, in qualche modo, non è solo la recensione del film secondo il gusto della persona. Per esempio, se uno vuole fare il critico si va a prendere un esame di storia del cinema un po’ fornito e si legge quei testi.
Spiluccare i corsi di storia del cinema dell’università è già qualcosa: non so, se ci sono 100 film da vedere, quello è un ottimo punto di partenza. Insomma, la cultura non la fai tu da solo, se non segui qualcuno non riesci. Ricordando che, seguire qualcuno, significa poi “ucciderlo”, altrimenti non potresti mai andare per la tua strada. Perché i padri sono fatti per essere uccisi.
Non è una roba dove si può essere autodidatti, il critico lo fa uno che capisce di cinema: per capire di cinema devi averlo studiato, se non lo hai studiato non puoi fare il critico. O meglio, puoi fare tutto quello che vuoi: l’opinionista, lo youtuber, Letterboxd, ma cose che non sono il critico. Per me devi trovarti dei padri, dei maestri, confrontartici e poi magari ammazzarli, però questi padri devi trovarli. Evitare insomma di perderti.
Hai qualche guilty pleasure cinematografico? Film che magari da un punto di vista critico dovresti aborrire ma invece semplicemente ti piacciono troppo!
Ma guarda, io sono un grande amante del comico, in particolare ho una grande passione per il demenziale. Per esempio, ho difeso uno dei film considerati peggiori della storia del cinema, Comic Movie (Movie 43, 2013), per me un film geniale. Ma non lo chiamerei neanche un guilty pleasure, è una roba che mi interessa davvero, sono molto vorace di tutto.
Per me poi Movie 43 è realmente un grande film; quindi non so se lo definirei un “guilty”, ma è pur vero che è considerato uno dei peggiori della storia del cinema. È un’opera assurda e situazionista, sia a livello produttivo sia a livello di rappresentazione: è proprio un film di scarti, di rifiuti, osceno nel senso letterale, scorretto. Una messa alla prova del buon gusto del pubblico e dello storytelling degli attori, della loro autorappresentazione, qui costretti a mutamenti assurdi (un paio di testicoli che pendono da un mento…) e a impersonare parafilie come incesto, coprofilia, necrofilia. È un vero specchio deforme e oscuro del politicamente corretto e del racconto delle star.
Io però raramente mi vergogno, cerco sempre di ragionarci dietro, per me il giudizio arriva veramente dopo. A me interessa tutto, ma per la domanda ridico il comico, sia alto che basso. Per esempio dei cinepanettoni riconosco un valore sociale interessante, uno come Neri Parenti è un regista che si vede che ha studiato e viene dal cinema comico.
Il problema di tanta critica formatasi negli anni ‘70, che per esempio i cinepanettoni li ha distrutti, è perché veniva (e veniamo) da una critica che è appannaggio dell’intellighenzia di sinistra. Non per fare un discorso politico, però diciamo che il lavoro culturale e artistico in Italia è sempre stato prima di tutto quello insegnato dal neorealismo (impegno civile e, i grandi registi come Antonioni, l’idea del cinema italiano come il più bello del mondo ecc.). Ma il cinema italiano non è solo questo.
Per conludere, hai tre libri che consigli sul cinema?
Tre cose molto distanti, di critici viventi: Paura e desiderio di Enrico Ghezzi, Il film del secolo di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, L’alieno e il pipistrello di Gianni Canova.
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