In uscita nelle sale italiane dal 5 gennaio, Godland – Nella terra di Dio è il terzo film di Hlynur Pálmason dopo l’interessante Vinterbrødre e il bellissimo A White, White Day – Segreti nella nebbia.
Presentato a Cannes nella sezione Un certain regard, e successivamente fuori concorso al Torino Film Festival, Godland – Nella terra di Dio è un dramma storico con protagonista assoluto l’attore danese Elliott Crosset Hove, qui alla sua seconda collaborazione con il regista islandese.
Il viaggio di un’anima
Islanda, 1879. Il prete luterano Lucas (Elliott Crosset Hove) si reca nella terra dei ghiacci per costruire una chiesa e poi dirigerla. A spalleggiarlo in quest’impresa c’è il possente Ragnar (Ingvar Sigurdsson), guida esperta dei luoghi, un interprete (Hilmar Guðjónsson) e un piccolo manipolo di uomini. Intenzionato a documentare usi e costumi del territorio attraverso il mezzo fotografico, il volenteroso prete affronterà problemi non soltanto di comunicazione (quasi tutti quelli che lo circondando parlano islandese) o legati all’avversità del clima; ben presto egli sarà costretto a rivedere tutte le sue convinzioni religiose, mentre tenterà di sopravvivere in un territorio tanto affascinante quanto respingente.
La trama di Godland – Nella terra di Dio è tutto sommato esile: un uomo si allontana dalla popolata e rassicurante Danimarca per avventurarsi in un territorio sconosciuto, quasi proibitivo. L’Islanda, terra violenta e non esattamente ospitale, sembra il luogo perfetto per edificare qualcosa di forte, solido e destinato a resistere anche alla più terribile delle intemperie. Una chiesa, dove la parola di Dio si fa edificio e porto sicuro, deve accogliere lì dove sembra è quasi impossibile accogliere. Deve proteggere lì dove è quasi impossibile proteggere. Deve alimentare la fede in un dio lì dove è quasi impossibile credere in un dio. Ma è già prima della sua costruzione che per Lucas le cose si fanno complesse.
La prima parte di Godland, strutturalmente documentaria e di ispirazione quasi herzoghiana, è una totale immersione in un’Islanda che non fortifica il protagonista, ma lo indebolisce passo dopo passo. Il clima ostile, i fiumi difficilmente attraversabili e l’incapacità di legare con dei taciturni compagni di viaggio sono soltanto alcuni dei grattacapi che affronta Lucas, il quale infine riesce a edificare la sua chiesa sospinto più da una nevrotica inerzia che dalla fede. Restano, nel frattempo, delle fotografie che egli scatta; delle briciole lasciate lungo un cammino che lui sa essere indispensabile per qualche motivo. Sarà la seconda parte del film a dare al giovane prete delle risposte. Non quelle che si aspetta.
Lo strapotere della natura
Ne parla in modo disperato Giacomo Leopardi in uno dei dialoghi più famosi delle sue Operette Morali: se l’uomo si estinguesse dalla Terra, la natura, in tutta la sua maestà e indifferenza, non se ne avvedrebbe; essa continuerebbe a creare e a distruggere, a mutare e a rinnovare ciclicamente stagioni. Di conseguenza, l’uomo non può nulla di fronte alla sua forza ineluttabile, e neanche la fede in Dio può mitigare la piccolezza delle passioni umane, giuste o peccaminose che siano. È da quest’assunto che si diparte la parabola raccontata nell’equilibratissima sceneggiatura di Godland, scritta dallo stesso Pàlmason.
In Godland – Nella terra di Dio non ci sono molte battute, e quelle poche che vengono pronunciate sono spesso frutto di incomprensioni o mai del tutto comprese. A dominare il più delle volte sono dei non detti che amplificano le fragilità del protagonista, e che, riprendendo modelli spiccatamente nordici – basti pensare al cinema metafisico di Carl Theodor Dreyer o quello dell’incomunicabilità di Ingmar Bergman – sottintendono l’incapacità di un uomo di guidare una nuova comunità. Sopravvivere alle fatiche legate a un viaggio ostico o alla costruzione di una chiesa si rivela solo l’anticipazione di una missione quasi persa in partenza: insegnare la fratellanza pur non credendoci.
Il fallimento di Lucas è lento e totale, soprattutto quando entrano in scena Carl (Jacob Hauger Lohmann), il referente danese del villaggio, e le sue due giovani figlie Anna (Vic Carmen Sonne) e Ida (Ida Mekkin Hylnsdottir). Padre e figlie vivono infatti serenamente all’interno della comunità, e sebbene rispettino e aiutino il prete, percepiscono la sua silenziosa inadeguatezza. Neanche una fugace storia d’amore tra Lucas e Anna riduce un malessere invincibile. La lotta di Lucas contro la natura altro non è che il riflesso della lotta di Lucas contro se stesso. Uno scontro impari, a cui seguirà una rovinosa sconfitta.
La consacrazione di Pàlmason
Sono parecchi i pregi di Godland – Nella terra di Dio. Partendo dalle interpretazioni, colpisce la fisicità con cui Elliott Crosset Hove e Ingvar Sigurdsson affrontano rispettivamente i ruoli di Lucas e Ragnar. L’aspetto sempre più emaciato del primo e la robustezza fieramente esibita del secondo valorizzano questi due personaggi affascinanti e diametralmente opposti, nonché destinati per tutto il tempo a non comprendersi. Entrambi, del resto, sintetizzano in modo efficace il comportamento di due paesi – la Danimarca e l’Islanda – che all’epoca non volevano avvicinarsi né linguisticamente né culturalmente.
Assolutamente indovinata la fotografia in 35mm di Maria von Hausswolff, che, rischiando un formato 1,33:1, restituisce con grande fedeltà i paesaggi mozzafiato dell’Islanda. Le angolature suggerite dal formato potenziano così in modo semplice il carattere fotografico che accompagna l’intera pellicola, la cui idea, importante sottolinearlo, deriva dal ritrovamento di un baule contenente varie diapositive scattate nella terra dei ghiacci da un prete danese di fine ‘800.
Pertanto, in Godland – Nella terra di Dio l’arte della fotografia accompagna l’arte del cinema, creando un connubio che consolida la forma e arricchisce senza manierismi la sostanza.
In definitiva, a discapito di una durata un po’ eccessiva, la terza fatica di Hlynur Pálmason può considerarsi pienamente riuscita. La storia cattura, le ambientazioni intrigano e i personaggi sono scritti bene e in modo molto funzionale. Forte di un’interessante poetica votata alla sottrazione, il regista islandese dimostra con Godland – Nella terra di Dio di poter fare un certo cinema spirituale, non ridimensionando ciò che da sempre è la vera essenza del cinema: l’immagine pura, semplice, l’unica traccia in grado di resistere all’inesorabilità del tempo.
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Una boiata pazzesca!
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