Green Border (titolo originale Zielona Granica) della regista polacca Agnieszka Holland — già candidata agli Oscar per tre film quali Bittere Ernte, Europa Europa e W ciemności — e in sala dall’8 febbraio 2024, ci dimostra che dietro un’epoca dove vige l’iper-informazione e l’iper-connessione in cui, teoricamente, si viene a conoscenza di qualsiasi cosa accada nel mondo, si cela l’esatto contrario. Inoltre, all’apparenza crediamo di vivere in un tempo dove in Europa c’è un rispetto assoluto delle leggi che tutelano i diritti umani.
Il film è stato presentato in anteprima sia all’ottantesima edizione della Biennale di Venezia (dove ha vinto il premio speciale della giuria), sia al Trieste Film Festival. Esso, grazie alla forte determinazione e tenacia della cineasta, si concentra sul travagliato percorso di alcuni individui che, nel tentativo di trovare un rifugio lontano dal proprio paese che attraversa una situazione bellica, si trovano paradossalmente in un altro conflitto, quello tra la Bielorussia e la Polonia. Green Border perciò, si rivela essere un confine poco meno che verde, visto che non ha ricevuto un’ottima accoglienza in Polonia, e non presenta neanche i tratti di finzione per cui è stato costruito appositamente.
Green Border mostra delle vite al limite
La pellicola mostra per la sua intera durata con un freddo, ma fortemente incisivo bianco e nero, le vicende di un gruppo di rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, che cercano di raggiungere l’Unione Europea. Purtroppo, essi si trovano contro la propria volontà dentro una crisi geopolitica, cinicamente elaborata dal dittatore bielorusso Aljaksandr Lukašėnka. Paradossalmente prigionieri di questa guerra, si intrecciano le vite di una famiglia siriana che, insieme ad una donna afghana, tentano di raggiungere la Germania; di un giovane soldato, un gruppo di attivisti e una donna di nome Julia che decide di aderire alla causa di questi ultimi, seppur possano intervenire in soccorso con diversi limiti.
Povera e frammentata Europa
In Green Border la regista non intende semplicemente narrare ciò che succede bensì, per l’appunto, impone allo spettatore di osservare con attenzione quello che le persone subiscono, sfruttando il colore sopra citato affinché tutti siano collocati sullo stesso piano, in segno di una desiderata fratellanza che tende all’unione tra popoli. Per tutta la narrazione vediamo continue applicazioni di violenza scellerata da parte di esseri umani, contro altri esseri umani, poiché ciò che comanda è la propagandistica guerra tra due popoli che non vogliono scendere a compromessi, ma solo promuovere atteggiamenti di odio reciproci. Le vittime di questa situazione sono persone comuni, tra cui donne e degli innocenti bambini.
Non è questa l’Europa che siamo abituati a conoscere, né ovviamente siamo a conoscenza di certi fatti. Muovendosi sulla falsariga del film Europa Europa (1990), la regista ha voluto mostrare la doppia faccia di un continente che risulta sempre più divisivo e irrispettoso dei diritti umani, mostrando così la sua radicata vena razzista. Non si intende qui aprire una riflessione geopolitica poiché non è di competenza di chi scrive, ma guardando Green Border è difficile rimanere neutrali. Da questo punto di vista è lodevole la scrittura scenica, poiché tra la suspense e momenti di rapida visualizzazione di ciò che accade, induce a immedesimarsi nei personaggi come se volessimo stare dall’altra parte per salvarli, per sperare fino alla fine.
Green Border e il valore delle vite umane
In Green Border c’è spazio per molti spunti di riflessione, da cui possono scaturire idee di redenzione. Il turning point della narrazione arriva proprio quando sembra che non ci sia molto altro rimasto da fare per salvare i migranti, nel momento in cui chi sta dalla parte degli oppressori riconosce la brutalità di determinati atti, la così detta banalità del male di arendtiana memoria che in Green Border riecheggia altisonante, poiché non può esistere memoria se non si combatte per contrastare l’odio. Ed è così che, quasi come se fosse una domanda dalla difficile risposta, ritorna la questione: dove bisogna schierarsi?
Ogni vita umana indistintamente ha un valore e l’arte deve diventare una forma di impegno civile, come dichiarato dalla regista in un’intervista:
Non ha alcun senso impegnarsi nell’arte se non si lotta per quelle voci, se non si lotta per porre domande su questioni importanti, dolorose, a volte irrisolvibili, che ci mettono di fronte a scelte drammatiche.
La regista polacca riesce a farci sentire sulla pelle le immagini, affondando le sue radici in quelle terre logorate dalla guerra dove si consumano tragedie invisibili, si perdono vite umane che non hanno goduto di alcun rispetto. Green Border, dunque, dimostra quanto sia importante il cinema civile e sociale, in un periodo dove purtroppo siamo costantemente bombardati da notizie sui pochi conflitti che conosciamo, o meglio che hanno deciso di mostrarci.
Tendenzialmente, in una guerra si sceglie di stare dalla parte degli oppressi. Tuttavia, l’orrore è uno spettacolo alla quale non dovremmo assistere, senza fare distinzioni. Se davvero esiste ancora un briciolo di speranza, ciò che è necessario è promuovere ogni forma di attivismo che riconosce, nei diritti umani, la legittimazione di vivere in pace.
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