Sapersi rinnovare e gettarsi in nuovi progetti al passo coi tempi è in generale un bene per tutti, ma è senz’altro endemico al settore della moda. La moda come tale è questo stesso sapersi aggiornare e mostrare la novità e l’innovazione attraverso la sapiente arte dell’intreccio armonico dei fili di un abito, o di una collezione, come quella che Gucci ha appena lanciato al GucciFest svoltosi online dal 16 al 22 novembre 2020.
Il titolo della collezione è una frase meditativa e quasi filosofica: Ouverture of something that never ended, “apertura” di qualcosa che non è mai finito. Il titolo ha una doppia semantica, basata sull’ambiguità del termine francese Ouverture. Esso è sia il corrispettivo del latino incipit, con significato di “introduzione in qualcosa”, ma vuol dire anche “apertura” nel senso di “inaugurare qualcosa”. Da un lato, quindi, la frase scelta vuol dire che è l’introduzione di qualcosa che non è mai finito, intanto perché la moda non cessa nel momento in cui si spengono le luci delle passerelle e si interrompono le sfilate; ma vuol dire anche l’inaugurazione di qualcosa di innovativo in ciò che non è mai finito, che è in fieri, cioè che si sta sviluppando ulteriormente anche «qui ed ora», nel periodo di crisi delle arti che stiamo attraversando a causa del Covid. Si tratta del connubio tra moda e cinema.
Un filo nascosto
L’arte non ha certo paura delle crisi: è soprattutto dalla crisi che l’arte migliore emerge e si afferma come oggetto eterno nella storia del tempo, riaffiorando anni dopo, oppure, come questa volta, dando vita a una innovazione fondata sul rinnovato sincretismo artistico di alta moda e cinema d’autore. È un fatto noto che la componente estetica curata dalla costumistica nel cinema abbia influenzato i canoni della haute couture, basti pensare a Colazione da Tiffany o ai vestiti di Marylin Monroe. Il rapporto tra moda e settima arte è quello di una compenetrazione che giova ad entrambi i settori, da sempre.
Conscio di questo beneficiare reciproco, il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, cercando risposte a delle domande cruciali figlie del periodo che la moda sta attraversando nell’attuale pandemia, ad ottobre ha contattato Gus Van Sant, per realizzare una mini-serie di 7 puntate omonima alla collezione, ambientata a Roma. L’obiettivo era quello di realizzare una radicale sperimentazione che, da una parte facesse trovare nuovi linguaggi e nuove piattaforme espressive al brand, e dall’altra quella di trovare un luogo in cui i capi potessero sopravvivere artisticamente dopo le sfilate. Il GucciFest Non è una vetrina pubblicitaria, ma è un modo per far coesistere le arti, mescolandole armoniosamente, riuscendo a dare ai vestiti di haute couture un luogo nuovo: la presenza nelle riprese cinematografiche, anche in una eventuale post-pandemia. Qualcosa che ha il sapore visivo andersoniano de Il filo nascosto.
Un’idea che è, in vero, lo sviluppo naturale di quanto già accade di norma con i video musicali e le kermesse, in cui grandi musicisti e dive del cinema indossano abiti griffati realizzati ad hoc per l’occasione. Lo scopo è di trovare un nuovo senso e un rinnovato ambiente scenico ai capi d’alta moda e, al contempo, una scenografia più raffinata, dal livello dei costumi ai prodotti audiovisivi. Oggi è Gucci che contatta un regista, magari domani è una casa di produzione cinematografica che fa una partnership con un grande brand di moda per una serie di film (situazione già accaduta al livello di sponsorizzazione), o un regista che contatta un brand per realizzare un suo progetto cinematografico concettuale per il quale la mise è essenziale.
GucciFest: un esperimento (o qualcosa di più?)
Gucci ha scelto di passare attraverso l’audiovisivo seriale per presentare la sua collezione al GucciFest in un contesto poetico-narrativo mirabile, che unisce la bellezza architettonica della città eterna all’attitudine attoriale teatrale dei suoi attori e doppiatori che da li provengono, come Silvia Calderoni e Nico Guerzoni.
L’esperimento del GucciFest appare riuscito, l’impatto visivo è straordinario. Anche la qualità dello script, benché minimale, risulta incisivo, dallo stile poetico sfuggente, senza essere kitsch o pretenzioso. Magari, si tratterà davvero di una «ouverture» di qualcosa che non è mai finito… la filiazione, il connubio dell’alta moda con la poetica autoriale della settima arte.
Seguici su Instagram, Facebook, Telegram e Twitter per sapere sempre cosa guardare!