“Cosa misteriosa il tempo”, diceva Albus Silente. Possiamo stravolgerlo, domarlo, sospenderlo se necessario, ma mai arrestarlo. Il corso degli eventi prende una strana piega quando ci concediamo di crescere, quando i nostri occhi fanno da cornice a sogni lucidi ed entusiasmanti per il futuro, quando un battito di ciglia ci trasforma, neanche fosse il tocco di una bacchetta magica, in adulti più consapevoli e nostalgici. In occasione del ventesimo anniversario del primo film della saga – Harry Potter e la pietra filosofale – (regia di Chris Columbus, 2001), Eran Creevy ha riunito il cast, i produttori, i registi della saga originale per un flashback nostalgico al decennio trascorso sul set: Return to Hogwarts, l’attesa reunion di Harry Potter.
Anche l’autrice dei libri, J.K. Rowling, nonostante le recenti controversie mediatiche che l’hanno coinvolta relativamente alle accuse di transfobia, ha preso parte all’evento attraverso materiale d’archivio e interviste rilasciate nel 2019, menzionata innumerevoli volte dagli attori, grati per aver dato loro la possibilità di entrare nella storia.
Girato negli Studios della Warner Bros. a Londra, l’anniversario virtuale dei protagonisti sarà disponibile sul canale dedicato Sky Cinema Harry Potter dall’1 al 16 gennaio sul numero 303 e su NOWTV.
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Harry Potter 20th Anniversary: return to Hogwarts. Il déjà vu incantato parte da King’s Cross
L’Hedwig’s Theme di John Williams è il nostro binario 9 ¾ per Hogwarts. I maghi tornano al castello, ciascuno viaggiando sul binario che ha costruito con determinazione nell’ultima decade. Attendono qualcosa, quella lettera dal sigillo rosso che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo desiderato di ricevere. Non di Domenica, sia chiaro. A figurare sullo schermo, uno dopo l’altro, questa volta però sono i volti dietro i personaggi, gli attori e le attrici che hanno reso possibile tutto questo.
Con un sospiro di sollievo, Hogwarts dà il benvenuto ai suoi alunni, professori, amici, maghi e streghe che vent’anni fa sono entrati nelle case dei babbani e ne sono diventati complici amici. Lungo il corridoio illuminato, dal soffitto stellato (Emma Watson rivela che una volta le candele appese al soffitto presero letteralmente fuoco, dunque non si trattava di un incantesimo della CGI), tra i banchi colmi di cibo, torna la gioia di viversi ancora, senza ciak né abbracci simulati.
Ed è impossibile distinguere realtà e fantasia: quando Emma Watson e Robbie Coltrane si abbracciano, i nostri occhi non possono vedere altro se non Hermione e Hagrid. Perché se i luoghi della fantasia ora sono fatti di muri, travi e scale a cui non piace cambiare, tornare indietro a quando la magia era qualcosa di assolutamente possibile non richiede un grande sforzo.
Daniel Radcliffe è l’ultimo ad arrivare. Il bambino che è sopravvissuto si aggira per Diagon Alley, e dal negozio di Tiri Vispi Weasley arriva nell’ufficio di Albus Silente dove ad attenderlo c’è Chris Columbus – regista dei primi due capitoli della saga -, quel custode della fantasia capace di vedere i film ancora prima che nascessero.
La scelta del cast fu difficile, se Rupert ed Emma erano saltati agli occhi tra le migliaia di persone presenti al provino, la produzione dedicò mesi interi alla ricerca di Harry Potter. Lo scovarono nel David Copperfield trasmesso dalla BBC, con un sorriso vispo e doti incredibili. Sembra non sia passato un giorno, ma che sia passato un secolo tanto da meritarsi una reunion – dice Rupert, che è decisamente invecchiato meglio rispetto al Ron dell’epilogo a King’s Cross: ora è padre, ha una famiglia, ma è facile tornare al primo giorno in cui si sono incontrati.
“Quando eravamo insieme, c’era qualcosa di giusto e semplice”, dice Emma, visibilmente commossa. Nell’atmosfera da Luna park creata e concessa da Columbus, cullati dalle scenografie di Stuart Craig, i bambini erano trattati da bambini, erano distratti, giocavano a slam, e la loro attenzione fluttuava seppur circondata dall’élite attoriale britannica: “Richard Harris per noi era una guida turistica” – ridono. Si recitava in famiglia, si lavorava con il sorriso, si edificavano legami destinati a durare per sempre, nonostante la distanza, i percorsi di vita, le scelte artistiche.
L’anniversario arriva come deus ex machina per risalire il corso del tempo, per confermare ciò che dieci anni fa aveva solo ancora accennato. Siamo ancora qui, mano nella mano, stretti negli abbracci, commossi e presenti. Dopo tutto questo tempo, sempre.
Una saga in quattro capitoli: la reunion di Harry Potter tra élite britannica e dichiarazioni d’amore
Come dimenticare Sirius Black, lo zio di Harry Potter, prima criminale, poi fuggitivo, assolto e infine vittima – nel quinto capitolo – della bacchetta impietosa di Bellatrix Lestrange (Helena Bonham Carter). Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban è stata l’occasione per Daniel e Gary Oldman di stringere una profonda amicizia. Era una figura fondamentale per Daniel, così come nella finzione il suo Sirius era capace di evocare al contempo oscurità e incredibile calore.
Con il terzo capitolo della saga, diretto magistralmente da Alfonso Cuarón, l’ottimismo lascia il posto al dramma dell’adolescenza, una transizione per cui si rese necessaria una cifra stilistica differente dai film precedenti. Con il prigioniero di Azkaban, Harry Potter valica una nuova era, assapora con i compagni la vita adulta, i dolori incarnati dalla figura dei Dissennatori, abili nel succhiare la gioia dalle persone. Così Daniel, nella vita reale, conscio del calibro dell’attore con cui stava per condividere scene impegnative, cercava di mascherare l’ansia dando consigli ad Emma su come “affrontare il pezzo grosso”.
Con Harry Potter e il Calice di Fuoco, Mike Newell realizzava un film pomposo, pieno di azione, con un nucleo grandioso ed energico. Tutto cambiò dopo Chris Columbus: Newell li trattava da adulti quali erano. Il quarto film si impose come preludio all’adolescenza, un manuale di istruzione per le prime relazioni sentimentali, un porto sicuro in cui approcciarsi all’altro sperimentando l’amore. In questo è centrale il Ballo del Ceppo: la danza era un momento critico necessario per mostrare quanto fosse difficile abbracciare il corpo dell’altro. La forza del tocco di Newell risiede nell’aver reso verosimilmente le debolezze, le emozioni, le sfide nel diventare adulti. E non è un caso che le pressioni si siano riversate sulla vita degli attori anche fuori dallo schermo, tanto da indurli più volte a pensare di abbandonare il progetto (Emma e Rupert, soprattutto).
Pensavano: “Finirà mai?”. Quei bambini che diventavano adulti provavano emozioni affini senza dirselo, ciascuno affrontando le crisi secondo il proprio tempo. La costante, era sempre Hogwarts, quella casa che aveva reso gli outsiders una realtà possibile e aveva legittimato l’esistenza di personaggi strampalati che, dotati di grande umanità, sentivano di dover appartenere a qualcosa. Come Draco Malfoy (Tom Felton), il vero eroe che spezza le catene con la famiglia avverando la sentenza di Silente per cui bisogna provare pietà per coloro che vivono senza amore.
La reunion concessa da Return to Hogwarts è soprattutto l’occasione di salutare un’ultima volta i personaggi che ci hanno lasciato nel corso del tempo, le Leggende che la Morte ha preso sotto il suo mantello: Alan Rickman, Helen McCrory, Richard Harris, John Hurt, Richard Griffiths, attori in grado di donarsi completamente alla storia per servirla e omaggiarla con il rispetto che meritava. Non importava che la saga fosse stata pensata, almeno agli albori, per i bambini. Il talento e la devozione che questi attori e attrici hanno riservato ad un progetto così ambizioso avrà per sempre un posto speciale, tra le fila delle innumerevoli maestranze scomparse durante e dopo la lavorazione dei film: “Quelli che ci amano, non ci lasciano mai veramente”.
Return to Hogwarts: quando la realtà è più artefatta della finzione stessa
Se c’è una cosa su cui il trio insiste, al di là delle storie sentimentali in background o degli sketch custoditi dalla memoria e dal materiale d’archivio – tra tutti il l’attesissimo bacio tra Ron ed Hermione e la cotta di Emma per Tom – è che nessuno potrà mai capire l’esperienza che questi giovani attori hanno avuto il privilegio di vivere, un livello di amore non verbale e di cura reciproca che già in tenera età diede loro la consapevolezza di esserci senza dire nulla. E questo amore arriva dritto, chiaro e comprensibile a chi osserva, vent’anni dopo, parallelismi che fanno battere il cuore con ritmo frangibile.
L’epilogo ci ha permesso di comprendere, assieme ai paladini della nostra infanzia, il valore della fine: ci siamo aperti alla chiusura, abbiamo imparato a scandire le fasi più importanti della nostra crescita legando a ciascun ricordo una pagina, un personaggio, un evento. Siamo stati i destinatari di un mondo, di una storia che ci ha permesso di sentirci a casa ovunque fossimo.
Non è un caso che sia Alan Rickman a chiudere il sipario. Quell’attore teatrale, con il suo lungo mantello nero e le braccia conserte, sempre serioso, cupo, indecifrabile e infrangibile, racchiude nella sua frase più esplicativa tutto quello che la saga ha significato per noi: saremo sempre casa, famiglia, amico, per chi ha avuto l’onore di condividere con noi questo atto di felicità.
Stretti alla nostalgia, faremo sempre – a chi verrà – il dono dell’incanto, della magia, di quelle formule che, gridate a gran voce o sussurrate, avveravano tutti i mondi possibili. Harry Potter ha dato casa e forma alle idee, alle transizioni difficili che ci sembravano valicabili con l’aiuto di chi cresceva al nostro stesso passo.
C’è un motivo se ancora preferiamo ritagliarci un angolino sul divano ogni qual volta nel palinsesto figuri uno dei capitoli della saga.
C’è un motivo se gli incassi lo hanno spinto al vertice del box office mondiale vent’anni dopo la prima apparizione sullo schermo.
C’è un motivo se chi c’è sempre stato, fino alla fine resterà in parte deluso e disincantato di fronte ad un’operazione nostalgia patinata e artefatta.
Il mondo possibile descritto da J.K. Rowling, avverato sullo schermo da una schiera di registi dal calibro incredibile, eterno nella mente e negli occhi di chi ancora oggi tramanda il peso di una tradizione, non è riproducibile se mediato dalla finzione. Avremmo preferito l’improvvisazione, senza copione, senza retorica confezionata per strappare lacrime che avremmo versato comunque, senza sforzo di doverle creare per un desiderio di malinconia aggiornata.
O forse, più semplicemente, tutto ciò che conoscevamo meritava di rimanere lì, dove lo abbiamo incontrato per la prima volta, con gli occhi sognanti dell’infanzia, incontaminabile, al sicuro dai paradigmi critici imposti dal tempo. Meritavamo di credere ancora nelle premesse originali, nelle promesse che immaginavamo di ricevere, nella strada che sembrava aprirsi di fronte a noi per insegnarci chi non volevamo essere, e chi invece avremmo dovuto diventare.
La summa delle nostre speranze disattese è tutta nella frase di Robbie Coltrane, in fondo Hagrid ha sempre saputo confortarci nel modo giusto: “Tra cinquant’anni io non ci sarò più, ma Hagrid sì. È questo che conta”. Ed è questo ciò di cui avevamo bisogno.
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